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The Program

Regia di Stephen Frears vedi scheda film

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La recensione su The Program

di barabbovich
8 stelle

Tra il 1999 e il 2005 l'americano Lance Armstrong (Foster) vinse per sette volte consecutive il Tour de France, la gara ciclistica più famosa al mondo. Unico ad avere indossato così tanto la maglia iridata, Armstrong fu il campione di un colossale programma di dribblaggio dell'antidoping, colui che a suon di epo, testosterone, ormoni della crescita e altri steroidi spinse il proprio fisico e quelli della sua squadra ben oltre i limiti fisiologici, con la complicità del medico italiano Michele Ferrari (Canet). L'avvincente film di Stephen Frears ricostruisce quella torbida storia a partire dal resoconto che ne fece un giornalista del Sunday times, David Walsh (O'Dowd), convinto - fin dalle primissime vittorie dell'americano - che quel posto sul podio fosse stato conquistato con il doping. L'abilità di Armstrong fu, purtroppo, esemplare: seppe rivendersi benissimo la vicenda del cancro ai testicoli che lo colpì dopo che era diventato il più giovane vincitore di vincitore di tappa di tutti i tempi e diede vita a una fondazione benefica per la lotta contro i tumori che non potè che ingraziargli le simpatie del popolo bue, incapace di capire che in questo come in molti altri sport da quando sono entrati gli sponsor e le televisioni il giro di denaro è esorbitante e le competizioni sono taroccate (Pantani docet). Il regista inglese - che all'imbonitore americano ha dedicato la prima opera di fiction dopo i documentari di Alex Gibney (The Armstrong lie) e di Alex Holmes (Senza Scrupoli) - ricostruisce la vicenda con rigore filologico e stile assai classico, mostrando in filigrana il contrasto tra il modello culturale della vecchia Europa e il rude pragmatismo americano e restituendo un ritratto del protagonista come di un essere bieco, opportunista, capace di vendere sottobanco le biciclette da corsa dei suoi compagni di squadra per pagarsi l'epo e incline a ogni genere di minaccia agli avversari decisi a spifferare le porcherie del doping alla stampa. A far scricchiolare la colossale impalcatura mendace del ciclista americano contribuirono tanto la voglia di vendetta di Floyd Landis (Plemons), il sodale beota impregnato di farlocchi principi religiosi, quanto un assicuratore (Hoffman) la cui società avrebbe dovuto versare ad Armstrong quattrini a palate a ogni vincita del tour. Ma ciò che più di ogni altra cosa contribuì a scoperchiare il vaso di Pandora fu l'implacabile voglia di successo di Armstrong, sicché il suo ritorno alle corse, nel 2008, portò tutto alla ribalta. Sappiamo come andò a finire: l'ulteriore finanziamento di una supermacchina per i controlli antidoping fu uno stratagemma insufficiente e Armstrong subì il contrappasso di vedersi ritirati tutti i titoli vinti, nessuno escluso, proprio dall'United States Anti-Doping Agency (USADA).

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