Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
Accorato omaggio su uno dei pilastri della cultura italiana da parte dell’americano Abel Ferrara, che sfrutta i soldi francesi per un trattato (talvolta in una stridente salsa pop) sul genio di Pasolini e sull’amorevole passione di quest’ultimo per la vita.
Liquidato frettolosamente come biopic, al termine della visione il film di Ferrara appare invece come un omaggio a Pasolini, non un tentativo di mostrarne la formazione umana e di pensiero. Non a caso il film si apre in medias res, con un Pasolini già adulto e già famoso: una scelta di scrittura funzionale ad analizzare il suo rapporto col mondo, soprattutto attraverso il modo di inscenare le sue opere.
È chiaro che Abel Ferrara sottolinea, da maestro consumato quale è, le peculiarità di Pasolini, evidenziando il rapporto edipico con la madre, l’attrazione per i giovani borgatari (senza disdegnare scene di sesso esplicito), la predilezione per i reietti della società, il pensiero politico destabilizzante e crudo.
Quel che più colpisce del film, più ancora delle fedeli scenografie, che rendono bene la ricostruzione di un’epoca, è l’interessante e coraggiosa commistione tra piani (meta)narrativi, che portano ad un cortocircuito intrigante, in cui l’amico di Pasolini Ninetto Davoli (interpretato senza passione da Riccardo Scamarcio) condivide lo schermo con il vero Davoli, impiegato invece nei panni di Epifanio, uno dei personaggi dell’incompiuto Porno-Teo-Kolossal, all’interno di quei due o tre inserti immaginari, presi dai libri (compiuti e incompiuti) dell’autore bolognese, che attraverso l’immaginifico raccontano la realtà del loro autore.
A proposito di interpretazioni, Dafoe è un buon Pasolini, anche piuttosto somigliante se non fosse per quel naso adunco che spiazza ancor più della corporatura robusta che Pasolini proprio non aveva. Sul piano registico, il film talvolta sconfina in una certa deriva agiografica che non è che la conferma della passione con cui Abel Ferrara metta in scena questo sentito e riverente ricordo del grande scrittore e regista italiano. L’afflato di Ferrara per l’argomento è sottolineato dal clamore con cui continua a benedire ad ogni intervista i fondi pubblici francesi, bacchettando gli italiani per il loro pigro contributo alla realizzazione del film, incredulo di come un autore così influente per la cultura del Belpaese abbia lasciato più benefici ai cugini d’Oltralpe che agli italiani stessi. Eppure Ferrara prova a omaggiarla la cultura italiana, con riferimenti ed interludi di montaggio, nonché con le numerose scene, specie quelle meno verbose e complicate, in cui Dafoe recita in italiano.
Un andamento coerente e lineare, tuttavia non scevro da scivoloni stilistici e qualche americanata kitsch, che va verso un finale maestoso. Il nero con cui si chiude il film è la fine di tutto: la fine del film, ovviamente, ma anche la fine della vita di Pasolini (per cui Ferrara avalla la versione della punizione omofoba), come è anche la fine del romanzo allegorico che egli intendeva realizzare, magnificamente rappresentato da Ferrara attraverso una scala sospesa nel vuoto dell’universo, a testimoniare come la visione pasoliniana del mondo, per quanto ipercritica, fosse sostanzialmente ricca d’amore per il genere umano. Un film dunque pieno d’amore, soprattutto quello viscerale del regista per Pasolini, al di là delle strumentali critiche mosse a Ferrara e al suo modo rovinosamente pop di trattare alcuni passaggi.
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