Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
Parlare di Pasolini oggi risulta difficile, anzi risulta ancora difficile.
Il film di Abel Ferrara ci prova raccontando l'ultimo giorno dello scrittore (come amava definirsi lui stesso), con l'ultima intervista concessa a Furio Colombo nel pomeriggio, con l'ultima lettera scritta all'amico Eduardo De Filippo per il loro progetto su un film mai realizzato, con le ultime immagini del suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”-1975, con le “visioni” del suo ultimo romanzo “Petrolio”, per il quale a mio avviso è stato ucciso.
Essendo Pier Paolo Pasolini il protagonista di tutte queste ultime cose, queste “cose” risultano essere veramente troppe per soli '86 minuti di film.
A distanza di 39 anni dalla sua scomparsa, Pasolini è ancora un mistero per quanto riguarda la sua morte, un artista unico e inconfondibile per quanto riguarda la sua immensa opera artistica, una ferita mai risarcita per quanto riguarda la sua perdita umana e critica nella società di oggi.
Per questo oggi risulta ancora difficile parlare di Pasolini in maniera distaccata e obiettiva o critica, senza utilizzare le sue stesse parole.
Il film in questione le utilizza infatti, senza parsimonia: utilizza quelle dell'intervista a Furio Colombo; utilizza quelle dei suoi romanzi e infine quelle dei suoi ultimi film. Abel Ferrara di suo ci mette la personale visione di alcune possibili scene di Petrolio e del film mai realizzato con Eduardo, con una ottima interpretazione di Ninetto Davoli, nella parte di un Eduardo-Epifanio romano, e di Riccardo Scamarcio in quella di un Ninetto Davoli napoletano.
Ferrara è accurato nella ricostruzione ambientale di un momento storico italiano molto violento. E' davvero preciso e anche rispettoso (se mi passate questo termine forse non troppo adeguato), nel mostrare Pasolini (e Carlo il protagonista di “Petrolio”, un alter ego odioso ma necessario) nei suoi incontri amorosi, alternati alla vita familiare, molto tenera, con la madre Susanna (una Adriana Asti bravissima) e la cugina Graziella che gli fa da amorevole segretaria.
Molti particolari ci vengono mostrati nel film: la scrivania di Pasolini piena di oggetti, anche intimi, come può essere intimo un libro (“La scomparsa di Majorana”di Sciascia in questo caso). Il guardaroba di Pasolini, la sua camera, la sua macchina da scrivere Olivetti. La ricostruzione fisica di Pasolini tramite un Willem Dafoe davvero illuminato per questo ruolo.
Molto bella la scena della partita di pallone in un campetto di periferia, che non può non riportare alla memoria le scene di repertorio che vedevano lo scrittore friulano dribblare con disinvoltura il pallone in campo.
Queste sono le cose che rendono il film buono, più che buono, ma non sufficiente a parlare di Pasolini. Non almeno se si utilizzano le sue parole. Perché così rimane quasi un film incompiuto per chi Pasolini non lo conosce e inutile per chi lo conosce - in quanto non dice più di quello che si sa già .
Per quanto mi riguarda c'è poi l'aspetto finale del film troppo melodrammatico che non mi è piaciuto molto. La morte di Pasolini è per me ancora una ferita aperta, che mi fa abbassare gli occhi nella scena del pestaggio, che mi fa montare la rabbia al pensiero di saperlo solo e ferito per ore sulla sabbia gelida di Ostia (ma quante volte in vita è stato lasciato solo e ferito? E mi viene da pensare: quante volte lo hanno ucciso Pasolini?).
Mi si riempie ancora oggi il cuore di una tenerezza infinita alla visione della scoperta del suo cadavere: solo, all'alba, in un campetto di calcio sabbioso, trovato dalla gente del posto, la gente semplice che piaceva tanto a lui... come gli piaceva giocare a pallone in campetti desolati e di periferia come quello in cui è stato barbaramente ucciso.
Ancora oggi, a parer mio non si riesce a parlare di Pasolini, chi ci prova anche con discreta bravura, rimane schiacciato dalle sue parole feroci, dalle sue visioni eccessive e apocalittiche ma lucide, dalla sua poetica affascinante, dal suo percorso difficile ma che sapeva arrivare alla gente semplice.
Io non ho capito tutto di Pasolini, eppure so che mi piace, questa piacevole incomprensione è quello che me lo ha reso affascinante, anche nelle opere più difficili.
Sento molto la mancanza di Pier Paolo Pasolini, sento la mancanza delle sue parole che, riferite da “altri”, appaiono solo ritagliate, mentre ascoltate dalla sua voce assumono un sapore poetico e profetico.
Note personali.
Mentre vedevo il film, mi veniva in mente un altro film su questo genere: “Mishima”-1985 di Paul Schrader. In questo caso il regista ha fatto una scelta drastica, ma decisamente più funzionale alla riuscita del film: rivolgersi ad un pubblico che conosce molto bene le opere dello scrittore giapponese. Questa può apparire una scelta discriminatoria, ma era necessaria per una comprensione non solo del film ma di Mishima stesso, o, per lo meno, della interpretazione che Schrader ne stava dando. Avrei apprezzato da Abel Ferrara un simile coraggio, e forse da lui me lo sarei anche aspettato.
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