Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Film cinereo come e più dei maglioni grigio/marroni di Moretti, Mia madre va visto e rivisto, per superare l’iniziale sensazione di impasse e quello strano retrogusto di non indispensabilità. Un consapevole ma irrisolto canto del cigno, l’addio ai monti della giovinezza, un delicato dramma da (tele)camera. Moretti ci stupirà ancora, fidatevi.
Il Moretti bifronte, o della schizofrenia caratteriale: perfettamente a suo agio nell’invettiva, in palese difficoltà quando si tratta di esprimere un sentimento, ancor di più quando questo incarna un sentire privato che il suo cinema ha la pretesa (ma anche l’intelligenza) di rendere, anzi riconoscere, universale.
Gli anni passano per tutti: ed allora il Nanni fustigatore, il Moretti intirizzito dalle altrui volgarità di pensieri e parole, il nevrotico felice di esser tale e di far pesare i propri khomeinismi comportamentali ha ceduto il passo, da qualche tempo e da qualche film a questa parte, ad un signore di mezza età, distinto, apparentemente pacato, che ha scelto di sottrarsi alle bufere della società, anziché affrontarle di petto, ed il cui tratto distintivo sembra ormai essere il rifiuto, ovvero la impossIbilità di attribuire (a sé o, meglio, ai suoi personaggi) un ruolo e di recitarlo (perché, ricordiamolo, il cinema di Moretti è sempre stato legato a doppio filo alla vita ed al modo di interpretarne i troppi segni distorti).
Mia madre va a concludere una ideale trilogia, iniziata con La stanza del figlio e proseguita con Habemus papam. Film che sono tasselli di un mosaico che è possibile definire del dolore: di una perdita, della incomprensibilità della stessa, degli inutili tentativi di acquattarsi dietro la legge di natura (nel caso del primo titolo citato, dietro il suo barbaro rivolgimento) ma anche di quel senso di straniamento che comporta la assunzione di una qualsivoglia responsabilità, quella stessa che ha sempre connotato il Moretti attore/regista/oratore e che ora pare recare con sé ed in sé il grossolano segno della insostenibilità.
PERDITA. Mia madre è il racconto della perdita di un genitore ma, soprattutto, di un punto di riferimento. La mamma quale faro e luce astrale di una giovinezza che se ne va, ma anche quale metafora di una (consueta) difficoltà nel fare ordine tra sé ed il mondo circostante. I respiri sempre più affannosi della anziana (una magistrale Giulia Lazzarini, dalla recitazione soffusa ed antimorettiana) sono anche i tentennamenti di una sceneggiatura (del film nel film) in fieri e costante zoppicante divenire, lo smarrimento del proprio sé nel mondo e nel lavoro, il balbettio perenne di un’anima alla ricerca dell’ordine impossibile. E’ stato detto che Margherita Buy è la rappresentazione sin troppo iconografica del mondo nevrotizzante del Moretti regista/attore. Vero: ma è anche un Nanni insolitamente confuso, destinato alla sconfitta, impensabilmente piegato agli eventi e trascinato dagli stessi. Un Nanni che ha aperto gli occhi sul circostante e ne ha colto la forza sulfurea ed invincibile: a cosa serve lottare quando, a poco a poco, quel che resta di noi, le nostre radici, sono destinate a marcire? A cosa vale scagliarsi contro la pochezza delle parole, quando un lento spegnersi (ma anche un semplice incidente sul set) finirà col rinsecchire quelle nostre che pure parevano così esatte? E se, in La stanza del figlio e Habemus papam, tutto sembrava stemperarsi in una dimensione quasi onirica (il figlio che muore, senza che ciò sia davvero avvenuto, quale barriera di fantasia ad un dolore che Moretti cominciava ad avvertire nella sua strisciante capacità di insinuazione; il rifiuto del Papa quale morettismo sui generis ma ancora dotato di una sua ironia e, addirittura, di una sorta di riconoscibile leggerezza), in Mia madre l’episodio di vita reale perde ogni fascinazione filmica e rimanda l’immagine di un autore nudo, come e più di un re della cinematografia, sfocato, quasi arreso (il regista è uno stronzo e non ha sempre ragione, tuona la Buy, su script del suo, in tutti i sensi, anche psicoanalitici, fratello maggiore).
RESPONSABILITA’. Nanni si fa da parte e affida, come detto, a Margherita l’immagine riflessa delle sue peculiarità, sebbene immerse in un lago non dorato di sofferenza (quella sofferenza, altrove esogena, pronta a scagliarsi contro il mondo, qui tutta interiore, dettata dal triste ritmo circadiano della vita). Moretti è però incapace di non dire no. Se nei suoi film giovanili la negazione era degli altrui stili e stilemi di vita, linguaggio e comportamenti, in Mia madre l’autore si fa pontefice e rifiuta il suo mondo, di più: il suo lavoro, il tratto connotante, quello che conferisce al suddetto ritmo delle 24 ore una parvenza di stabilità. Le ragioni del piccolo rifiuto sono soltanto apparentemente legate alla contingente situazione familiare: allargando il campo esse appaiono piuttosto dettate da una improvvisa impotentia guerreggiandi, dalla constatazione di una qualcha artrite della pugnacità. Nanni/Michele/Giovanni sembra, in Mia madre, l’adolescente di Ecce bombo, sperduto, in disparte, deresponsabilizzato per scelta ma anche comodità, subitaneamente privato della possibilità di fare a pugni con i genitori. Resta la confusione: uno stato di coscienza, occorre dirlo e riconoscerlo, da vegliardo prima del tempo.
DOV’E’ MORETTI? Nanni, allora, sta per morire, cinematograficamente parlando? Mia madre come il canto funebre di un’opera omnia tesa alla ricerca, ed anche alla realizzazione, di una coerenza intangibile? Sicuramente, benchè il personaggio del primo Moretti paia risorgere là dove meno te lo aspetti, nella figura dell’attore americano (uno scatenato Turturro) e nei suoi dubbi esistenziali, in quella ubriacatura di parole da sceneggiatura che paiono raffazzonate ed incapaci non solo di dire ma anche di rappresentare un senso (il proverbiale Come parli? trasfigurato in un altrettanto drammatico Come reciti? Ma anche: Perché reciti?). Vitale e moribondo, aggressivo e timido come pulcino: il Turturro/Moretti è un compendio del grande futuro dietro le spalle, l’ammissione para-ironica (nonché iconica) di una sensazione di sconfitta, forse tuttora arginabile con un turbinio di frasi che ancora ancorano al mondo. Tutto quello, insomma, che il Nanni autore pare aver smarrito e che, pertanto, è costretto, per onestà intellettuale, a mettere in bocca a personaggi-specchio.
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