Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
"Margherita fai qualcosa di nuovo, di diverso, rompi almeno un tuo schema". Poi non ci riesce. Ma a noi Moretti ci piace così.
Mia madre, il dramma dell’assenza.
Il film quanto mai attuale sulla crisi, sul lavoro precario, sulla storia “troppo pesante” di alcuni operai che rischiano di essere licenziati dalla loro fabbrica – ora di proprietà americana – è, per fortuna, il film nel film che Margherita (Buy) sta girando in Mia Madre, dodicesima tappa di Nanni Moretti. Dal sociale dell’espediente metacinematografico, si fluttua così all’intenso dramma personale, la storia di due figli – Giovanni (Nanni Moretti) e Margherita – costretti ad affrontare il dolore per la morte della madre.
Zoom emozionale è volutamente posto da Moretti non su Giovanni, personaggio da lui interpretato – ingegnere equilibrato e figlio impeccabile – ma sulla sorella Margherita decisamente più problematica: già separata dal marito (Stefano Abbati) e ora in crisi con il nuovo compagno (Enrico Iannello), nonché madre dell’adolescente Livia (Beatrice Mancini). Alter ego di Moretti, Margherita detesta “tutto quel trucco” con cui imbrattano gli attori, è una regista che non riesce ad andare avanti nelle riprese quando il direttore della fotografia sta addosso ai personaggi, perché è più importante capire se lui sta “dalla parte dei manifestanti o dei poliziotti”, e non esita nemmeno ad interrompere gli attori sul set quando deve incitarli a “stare accanto” al personaggio, a far vedere “il personaggio ma anche l’attore”, una cosa che dice spesso e di cui, tuttavia, ha smarrito il significato.
Così come, Margherita, non ricorda o non trova le parole per spiegare alla figlia il valore del latino, l’importanza di studiare una lingua così arcaica per comprendere quel presente che lei, da regista, è in grado di leggere, nell’autoencomiazione di quella capacità tutta morettiana di “interpretare il reale”.
Oltre che sulla figura dai contorni sbiaditi e piuttosto tragici di Margherita, il film è giocato sulla presenza-assenza di un personaggio: una madre – Ada (Giulia Lazzarini) – che non c’è più, anche quando è ancora in vita. L’incapacità di vivere il presente, di fronte la notizia della vicina morte della madre ma, più in generale, l’incapacità di vivere la propria vita e di amare se stessi e gli altri che i personaggi morettiani sempre definiscono, non riesce a far godere Margerita della presenza della madre, personaggio in vita per tutto lo svolgimento del film ad eccezione degli ultimi minuti finali. L’impossibilità di amare di Margherita è incapacità di un gesto affettuoso che diventa distanza fisica nella difficoltà di massaggiare le mani della mamma o differenziale emotivo tra il cibo comprato frettolosamente in rosticceria da Margherita e la spigola “spinata tutta” che Giovanni cucina alla madre con premura. La capacità di Giovanni è quella di essere presente, alla situazione, al suo dolore, a quell’”ho deciso” con cui si mette in aspettativa dal lavoro per stare vicino alla madre nei suoi ultimi giorni di vita. Margherita invece non ha capacità decisionale: tanto nel lavoro – è una regista che rimprovera alla sua troupe di farle fare la regista – tanto nella famiglia – non riesce che augurare “buon viaggio” alla figlia che parte per la settimana bianca nonostante debba recuperare in latino. La sua capacità d’azione è labile e inibita dalla paura che può essere annientata solo con la rimozione - “Giovanni, so che te l’ho chiesto tante volte ma non l’ho ancora capito: in fondo cos’è che ha la mamma?” o, tuttavia, sospesa con l’evasione, in perfetto stile morettiano, nei sogni allucinatori: così Margherita riesce finalmente a prendersi cura della mamma sbattendo ripetutamente la sua automobile contro un muro per impedirle di guidare, o a godersi quella visione che il tempo le negherà della mamma in fila all’entrata del Capranichetta per assistere alla proiezione di Il cielo sopra Berlino (1987).
Margherita è quindi un personaggio smarrito perché ha smarrito il senso di quello che fa, è in difficile sintonia con il mondo: non vive a proprio agio tanto con se stessa – di cui ne percepisce, pur senza rimedio, la frustante inadeguatezza – quanto con gli altri, come invece gli fa notare l’ex compagno: è la madre, ingombrante presenza, a riuscire ad avvicinare Livia allo studio del latino, ed è sempre la madre a percepirne i suoi difficili umori legati agli innamoramenti adolescenziali. Margherita proprio non ci riesce: è un personaggio che rimane assente a se stesso dall’inizio alla fine creando un vuoto che si dipana nel film e che certo non può essere colmato dalle parole, quelle scritte sugli striscioni appesi alle mura dell’ospedale che Margherita non sopporta perché ritiene patetiche, quelle in cui incespica la madre e che Margherita non comprende – facendo si che alla distanza fisica tra le due donne si aggiunga quella verbale –, quelle goffamente italianizzate di John Turturro (Barry Huggins), la decadente star americana chiamata nel film di Margherita ad interpretare il nuovo proprietario della fabbrica: è così che l’altro continente entra tanto negli affari quanto nel cinema italiano, sgravandosi del pesante giudizio morettiano grazie alla leggerezza della figura comica e bizzarra di Turturro. Tornare alla figura materna ponendola al centro della propria opera, dopo averla più volte accennata in Palombella Rossa, come ne La messa è finita, vuol dire immergersi nell’ambiente uterino proprio del melodramma: riconvocare un elemento ancestrale come l’acqua del luogo in cui nasciamo e che ora allaga la casa, in balia di una figlia cresciuta che, incapace di assorbire, debolmente tampona con dei vecchi giornali. Un acqua fredda che non è più vita ma congelamento, di un melodramma che non fa commuovere, per lo meno non dove dovrebbe, come Margherita che piange quando la madre è ancora viva per non trovare più lacrime quando è già morta.
Come un film diversamente emozionale, che fa sorridere e commuovere dentro, con delicatezza. Con quell’intimità e quella necessità di stare un po’ accanto al dolore, sempre un po’ di lato per poterlo raccontare. Senza grandi performance. Con la sola autenticità che il dolore richiede, seppur nella finzione, della macchina cinematografica. E quel cinema già presente in Aprile e in Sogni d’oro, convocato più volte insieme alle tante altre istituzioni che Moretti è solito scomodare: dalla scuola di Bianca, passando per la chiesa di La messa è finita e Habemus Papam, arrivando alla politica di Palombella rossa e de Il Caimano, per tornare alla famiglia di Mia Madre. Quel cinema e quelle istituzioni che non sembrano essere di alcun orientamento per il personaggio: la madre muore senza che questa morte abbia portato ad un avvicinamento dei personaggi tra loro o per lo meno a loro stessi. “A che stai pensando mamma?” “Al domani”.
Un domani che per la mamma non è arrivato e per il film di Margherita non si sa. Ma quello di Moretti è uscito nelle sale ed è arrivato anche a Cannes. E non da solo. Perché forse, per il cinema italiano, un domani esiste ancora.
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