Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Il pianto rimane incastrato in gola. Allora urli quando non vorresti. Urli nei momenti in cui sai di poterlo fare, perché nessuno se ne meraviglia, nessuno te ne chiede conto. La madre di Margherita è in fin di vita. E lei inveisce contro la sua squadra, contro i suoi assistenti, perfino contro l’interprete principale del film che sta girando, quel Barry Haggings venuto apposta dall’America. Perché Margherita sa che la sofferenza del cuore cerca sempre le vie più banali per uscire di soppiatto, ed andare a girare per il mondo, senza farsi notare. È uno spirito ribelle che insegue le realtà alternative, quelle che compaiono in sogno, e che spesso sono più concrete ed istruttive della stessa verità. Ci trasformano da osservatori ad osservati, che si guardano da fuori, che si scoprono estranei a se stessi. È allora che smettiamo di essere, ed iniziamo a sapere di essere. La regista Margherita vuole vedere l’attore, accanto al personaggio. Vuole che ognuno giudichi la propria parte, mentre la recita. Vuole che il senso si mantenga vigile durante la finzione, che resista alla forza dell’evidenza costruita per illudere, che rimanga con i piedi per terra e non si lasci distrarre. Esattamente ciò di cui lei non è capace. Lei che preferisce viaggiare con la fantasia, per sfogarsi e dimenticare. Che si accanisce contro veniali imperfezioni, per non pensare a quell’altra imperfezione, enorme, onnipresente, ineludibile, dal nome impronunciabile, che suggella l’esistenza umana. Margherita si arrabbia terribilmente, quando qualcosa non va. Se la prende con tutti, colpevoli ed innocenti. In quel modo esprime la sua mancata accettazione del presente, affacciato su un futuro che non le piace. Il suo film parla di operai che occupano la loro fabbrica, per protestare contro la minaccia di licenziamenti. La loro situazione è quella dei combattenti in stallo, la cui impotenza si manifesta in collera. Non potendo impugnare le armi e andare sul campo di battaglia, si resta fermi, asserragliati dentro le mura di un passato che non si intende perdere. Per Margherita, quel passato si chiama Ada, ed è immobile in un letto di ospedale. È un’anziana professoressa di latino, che ha letto tanti libri, in casa sua ci sono interi scaffali pieni di testi classici. È ormai giunta al capolinea, ma al termine di un cammino lunghissimo, che sua figlia adesso ripercorre con la mente, e che vorrebbe protrarre all’infinito. Per farlo, occorrono però spazi nuovi, quelli che non esistono sui set cinematografici, in cui tutto è organizzato e schematico, scenografia-scaletta-battuta. In questo film le emozioni scappano dagli sguardi, si staccano dai volti, sono i sottintesi che si fanno strada in mezzo alla meccanicità delle azioni quotidiane. Anche i dubbi insoliti, quelli che normalmente si scacciano per mancanza di tempo, finalmente si prendono la rivincita, e diventano i protagonisti del discorso, i sintomi decisivi che ci rivelano a che punto stiamo. Tentare l’impossibile o lasciarsi andare. Scordarsi che delle può essere sinonimo di alcune, o ricordarsi all’improvviso del dativo di possesso. Grandi dilemmi e piccoli stupori. Ogni pretesto è buono per farli emergere dal fondo. Per accantonare il peso opprimente degli schemi ed abbracciare, teneramente, una ignota, dolorante leggerezza.
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