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Mia madre

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Mia madre

di lussemburgo
9 stelle

La cifra peculiare dell’ultimo film di Moretti è il pudore, variamente declinato nel testo e nella stessa struttura della narrazione che, infatti, sceglie di non affrontare direttamente la nota autobiografica, pur presente, ma di mediarla attraverso la finzione e per interposto personaggio. Per districarsi dall’eventualità di un ricatto emotivo, il regista pare rifuggire da ogni eccesso sentimentale, rifugiarsi nella compostezza per evitare ogni imbarazzo, concedersi alla confessione solo attraverso numerosi filtri. Moretti non è Giovanni nel film, benché lo interpreti, perché è soprattutto Margherita, regista che vorrebbe fare un film impegnato mentre vagheggia il disimpegno, che non vorrebbe trovarsi tra tecnici e attori ma al capezzale della madre, da cui però fugge per rifugiarsi sul set o nei sogni, i quali alla verità si mescolano e ne confondono timori e desideri, raccontano un passato sfuggito di mano e un diverso futuro incombente.

Ma Mia madre è una pellicola anche perfettamente allineata alla recente filmografia di Moretti, dopo la svolta impressa da La camera del figlio, a cui l’argomento avvicina l’ultima opera. Nel film vincitore della Palma d’oro il lutto, non autobiografico, era però esorcizzato in una finzione apotropaica, la vicenda raccontata distillando la sofferenza in scene di drammatica evidenza e l’elaborazione della perdita finiva per disgregare l’armonia, se non la famiglia stessa, per le diverse difficoltà del superamento del comune trauma. In Mia madre il dolore viene invece quasi evacuato dalla ribalta, rimane, profondo, sullo sfondo privato dei protagonisti, lasciandoli liberi o incapaci di affrontarlo, consapevoli o riluttanti, secondo la personalità. La malattia è ben presente, sebbene non chiaramente definita (tanto da lasciar adito al suo rifiuto), la consapevolezza crescente, l’inesorabilità invadente e aggressiva, ma la vita continua a distrarre dalla morte, interferisce costantemente a lenire o intensificare il dolore, a muovere i corpi in reazione alle persone e agli eventi, anche se non lo si vorrebbe, anche se, in fondo, è però così che accade. La realtà privata interseca il decadimento fisico, le esistenze degli altri vi si affacciano e si muovono parallele, a volte all’unisono e, infine, sono quasi armoniche nella reciproca condivisione del lutto.

E, come già nel Caimano, la finzione e la sua realizzazione intervengono a distrarre e arricchire la stessa narrazione, a sommarsi alle vicende dei protagonisti con la costruzione di un film nel film, un Effetto notte che non assorbe l’intera esistenza ma vi si somma, come l’attore che deve recitare una parte senza dimenticarsi di stare facendolo, il quale, come si dice a più riprese nel film, deve essere nel ruolo ma anche accanto ad esso, per esserne critica e rinforzo ed escludere quell’immedesimazione così amata dalla scuola americana. È questa un’altra forma di pudore che non autorizza l’unicità e univocità dell’interpretazione ma vi aggiunge una minima distanza, una freddezza straniante e consapevole che si tinge d’ironia e che ripete, in scala minore, l’approccio morettiano al cinema e alla rilettura in esso del proprio vissuto. Non è un autoritratto ma una raffigurazione stigmatizzata di comodo, una versione esasperata di alcuni tratti e funzionale al racconto, una visione autoironica e volutamente riduttiva di sé e del proprio mondo che ha creato molti malintesi sulla percezioni di Moretti come persona e personaggio.

La crisi di Margherita è nella consapevolezza dell’inadeguatezza della messinscena, della sgradevole persistenza dell’artificio nella ricerca di una verità, sociale o personale, fuggevole e scivolosa, che non ha forse mai affrontato davvero. È la percezione di una carenza professionale che diventa metafora e sintomo di una altrettanto grave incapacità di comunicazione interpersonale, di cui si rende improvvisamente conto nelle parole degli altri.

In Habemus papam il teatro intralciava la fuga del neo-eletto Pontefice dai suoi doveri per rivelargli la verità di una recita che non si sentiva in grado di affrontare, diventava la realizzazione di un antico desiderio impossibile di incarnare un altro, vivere altrove un’altra esistenza. La psicanalisi, ludica o seriosa (rispettivamente di Moretti e della Buy), si fa qui narrato, si intreccia al racconto in forma onirica ma fotograficamente indistinta, con un montaggio che alterna reale e fantastico senza denunciarne subito la natura. E la realtà è il termine costante di confronto per tutti nel film, all’interno della finzione del set, che si vorrebbe ritratto della moderna condizione operaia mentre ne risulta un poco convincente adattamento; nel mestiere di regista, così dissonante dallo stato d’animo di Margherita; nella recitazione, plausibile ma non simbiotica; in Turturro, che si lamenta di perdere il proprio tempo vivendolo per finta. La realtà è sempre dolorosamente altrove, distratta da qualcosa, dalla vita stessa o dal lavoro, dal carattere o dagli impegni, fuggevole fino, a volte, a diventare irrecuperabile. Come diceva Renoir e ripeteva Truffaut, ognuno ha le sue ragioni e la propria verità: l’attore bisbetico è irascibile perché patologicamente inadeguato; la regista cerca un equilibrio improbabile per le tensioni che affronta; i suoi amori sono indecisi per egoismo inconsapevole.

Ma non sapremo tutto di tutti. Molto è il non detto sui personaggi, accennato e offerto allo spettatore come spunto, non sapremo davvero perché Giovanni abbandoni il lavoro (e quale esso sia) o quale sarà l’esito del girato sul set. Il film ritaglia una porzione di vita accomunata da un evento, offre un racconto corale spezzando il punto di vista in porzioni distinte, dando a tutte quasi lo stesso peso e rivelando di ognuno soltanto quanto basta, in dose omeopatiche e funzionali al resoconto di quelle vicende. Delle altri non è educato informarsi e rimangono compostamente fuori campo.

Mia madre è fatto di frammenti, di sogni e di ricordi, di incubi e di nostalgie, abitato da svariati personaggi e volutamente non lineare, come i ripensamenti che aggrediscano nei momenti drammatici della vita, è riempito di vuoti narrativi e si termina su un’ulteriore, violenta sottrazione, reale quanto figurata. È un film così timoroso di imporre le sofferenze che racconta da sembrare dimesso; soltanto nel finale la fotografia assume sfumature inedite, mentre il pudore si abbandona al dolore, in quale esplode con un lancinante sguardo in macchina della protagonista che si fa semplice abbraccio nella comunanza dello strazio. Ogni perplessità eventuale di straniamento (come fa quasi sempre Jonathan Demme) si cancella coinvolgendo direttamente lo spettatore, interpellandolo in un quesito silenzioso che non ha risposta. E in quell’attimo, bruscamente interrotto, in cui la madre nel letto d’ospedale ragiona al domani, e tutti gli altri, inevitabilmente, fanno i conti col giorno della sua assenza.

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