Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Riposto la mia opinione che -sabato 25 aprile- non è stata correttamente pubblicata dal sito.
La morte al lavoro
Cosa ci succede quando una persona che è parte di noi, e noi di lei, sta morendo?
Cosa accade quando un genitore -in questo caso la madre- ci abbandona, lasciandoci soli e sguarniti, come mai avremmo immaginato di sentirci, per il resto dei nostri giorni?
Nanni Moretti, ha vissuto sulla propria pelle questa terribile (ma naturale secondo le leggi che regolano la natura) esperienza e conosciuto/provato gli innumerevoli contrastanti stati d’animo che la governano durante il tempo che resta, prima dell’estremo distacco (che siano pochi giorni o settimane, a volte mesi o qualche anno).
Così, una volta sedimentata la sofferenza e metabolizzato gli eventi, è passato a razionalizzare il devastante trauma emotivo che lo ha travolto, sorprendendolo impreparato nonostante pensasse di essere sufficientemente corazzato per attutirne l’impatto, per sostenerne i contraccolpi, del ‘durante’ e soprattutto del ‘dopo’.
È inevitabile che di fronte all’imminente perdita di una persona cara si verifichi uno squarcio profondo in coloro che restano (e nel frattempo assistono il morituro), una scissione verrebbe da dire, tra il bisogno di credere che esista ancora una speranza, che ancora non è tutto perduto, e la rassegnata consapevolezza (che solo gli incubi rivelano distintamente) di come stanno effettivamente le cose.
E Nanni ci illustra questa dicotomia creando un doppio se stesso, affinché i suoi alterego sentano, parlino e reagiscano per lui. Margherita e Giovanni.
Dei Michele Apicella cresciuti, stanchi, afflitti, invecchiati.
Margherita è il Moretti autore-regista, è il personaggio pubblico, l’artista impegnato costantemente calato nella realtà storica che vive/subisce/analizza/fustiga, e con le sue opere plasma il proprio vissuto.
Giovanni è il Moretti uomo. Quello privato, che conoscono in pochi. Fa di mestirere l’ingegnere, ed è perciò anch’egli, come la sorella, un progettista, un realizzatore di idee, forse ancora un inseguitore di sogni ma non di utopie.
Sono entrambi occhi vigili, entrambi supervisori.
A loro spetta l’ultima parola, nelle loro mani risiedono enormi responsabilità, a cui non possono sottrarsi.
Ma se a Giovanni è concesso il privilegio di assecondare se stesso, di tirare il fiato, di lasciare, di non fare più progetti, di fermarsi e vivere e piangere la sua tragedia esente da pressioni esterne di ogni sorta,
a Margherita, è affidato l’arduo compito di non arrendersi all’evidenza, di andare avanti, a continuare quello che bisogna necessariamente fare, perché in fondo è la vita stessa (il suo incessante divenire) ad imporlo come imperativo assoluto --declinato in responsabilità morale, sul lavoro, verso i figli che crescono, verso se stessi, presi/compressi/risucchiati dalla routine quotidiana-- , nonostante il suo sorriso stoni sul volto deformato dal dolore mentre tutti intorno sembrano divertirsi a cuor leggero, nonostante vorrebbe trovarsi altrove, magari in quella stanza d’ospedale, a riposare quando la madre riposa, a conversare quando la madre conversa, ad andar via, quando la madre andrà via.
Chiudere fuori il mondo, che stressa, distrae, ruba tempo prezioso, spersonalizza, aliena.
E gettare via la chiave.
Finché si è figli ci si sente al riparo, come protetti da una coperta che tanto riscalda e tanto conforta;
quando si finisce per essere soltanto uomini in mezzo ad altri uomini, la coperta non basta più,
e il freddo gela le ossa.
E si vaga disorientati, confusi, impauriti, tremendamente vulnerabili.
Forse senza più una reale meta, forse senza più un senso.
Mia madre è un’opera intimistica, essenziale e raccolta.
È una sorta di cronistoria di finzione che scandisce con sensibilità e rigore le tappe di un viaggio dolorosissimo che non vorremmo mai intraprendere.
Questioni di cuore gestite dalla testa, perché all’ineffabile caotico tracimante dolore è stato dato (finalmente) un ordine, ed una forma.
Cosicché, questi abbracci spezzati possano essere osservati dal di fuori, affinché se ne possa parlare, affinché con essi si possa dialogare.
E conservarne vivido il ricordo.
E, magari, riuscire finalmente a guardarsi e giudicarsi con minor severità, per non essere 'stati all'altezza' tanto quanto avremmo voluto.
Ed ecco, allora, che accanto al personaggio riusciamo a vedere l’attore, che, nel raccontare una storia, racconta se stesso.
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