Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Mia madre è cinema. Il film nel film è cinema. Il lavoro - perdita, contrapposizioni, aspettative - è cinema. Il latino (lingua morta, dell'analisi logica, del non fermarsi al primo significato che si trova sul vocabolario da bravo alunno/critico/spettatore) è cinema. Le fughe oniriche e i ricordi-raccordi con l'aldiqua (qualunque cosa sia e ovunque si trovi) sono cinema. La realtà (di una fauna umana che non corrisponde a come l'immagini, e che è diversa per ognuno di noi), la (ir)realtà dell'universo-spettacolo (fatta di rituali, balorda quotidanità, inaccettabile inevitabile retorica) e l'Oltrerealtà (quella a cui desidera (ri?)tornare Barry/Turturro/Moretti) sono cinema. Il suo cinema (il suo mondo): quello di Nanni Moretti. In forma di funebre, (inde)termina(bi)le audio-videoconfessione a cuore aperto e con sguardo (tras)lucido - ineluttabilmente intima e intimistica - il regista, forse in cerca di una elaborazione che non (av)verrà mai o semplicemente per una catartica esigenza creativa, racconta la sua inadeguatezza. Di fronte a una realtà che non (lo) capisce (più), al cospetto di una fantasmatica dimensione-cinema che lo vede collocato sempre nelle medesime prestabilite coordinate (l'inane cerimoniale delle interviste: le domande sono sempre le stesse, le repliche pure, gli scenari mestamente immutabili nel tempo e nello spazio), nel (falso) sentire comune che lui possieda le risposte. E naturalmente il grave, gravoso senso di vuoto - generatosi come un buco nero che inghiotte (false) certezze e status di marmo - in seguito alla perdita della madre, avvenuta proprio durante la lavorazione del suo ultimo lavoro, Habemus Papam. Il tutto filtrato attraverso Margherita Buy (l'Io è dietro e davanti alla mdp, in disparte; il Super-io è un alter ego dichiarato e sincero): gli occhi che denunciano smarrimento, impotenza, incomprensione. Anzitutto di - e con - sé stesso: sotto questa luce (fitta di nubi e dubbi) acquistano un senso quel reiterato, quasi fastidioso, esigere dagli attori di «stare accanto al personaggio», confessando(si) poi di non capire cosa ciò significhi (né di averlo forse mai capito per davvero), così come la "rivelazione" sul ruolo del regista (che è «uno stronzo a cui viene permesso di fare tutto») nonché la (auto)incitazione sulla necessità di "rompere gli schemi" (Moretti a Buy nella sequenza onirica nel mezzo dell'interminabile coda al cinema Capranichetta). Un mantra di simboli e (re)azioni implose, "minimal" ma dal forte impatto emotivo, crescente e penetrante come le musiche di Arvo Pärt che l'accompagnano. Ma se le componenti del dramma sono gestite con sensibilità e soprattutto autenticità (si veda la toccante scena in cui la nipote apprende della morte della nonna, tragicamente bellissima), senza mai franare in territori nei quali dominano enfasi e isterismi vari (abilità già mostrata ne La stanza del figlio), a destare casomai sospetto è la parte "leggera", impersonata dal personaggio di Turturro. A tratti il racconto si sfilaccia, (dis)perdendo equilibrio (proprio nella gestione e nell'alternanza toni drammatici/toni leggeri); e risultando alcune scene un po' forzate, schematiche (sempre con Turturro), come fosse un preciso disegno ai fini del progetto-film, non si può non fare qualche riflessione sulla cerebralità dell'operazione oltre che sulla sua palese autoreferenzialità. Cifra ritornante del cinema morettiano.
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