Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Il cinema di Lech Majewski arriva alla conclusione della Trilogia sull'Arte con la discesa di Adam, professore universitario, preda di un dolore acuto, nelle viscere del proprio calvario esistenziale. Memore della perdita dell'amata compagna Basia e del suo fraterno amico Kamill dopo un incidente stradale - cui suo malgrado si attribuisce la colpa - , Adam ha trovato lavoro nel supermercato di un centro commerciale e deposto la sua carriera di poeta. Nel suo “cammin di mezza vita”, così, si ritrova a vivere lungo un binario cui si alternano piani reali (la Polonia devastata dall'alluvione del 2010) e piani irreali (l'incontro con l'amico defunto e sfigurato nel supermercato), accompagnando il suo percorso con i versi danteschi. L'opera, intrigante dal punto di vista formale, accumula però simboli e citazioni, sovraccaricando l'elaborazione del lutto del protagonista attraverso un cammino socio-politico dipinto manieristicamente e poco convincente. Accade così che Adam (interpretato dall'attore Michael Tatarek) sembri un poco convinto angelo wendersiano, più che l'antieroe di un picaresco racconto ispirato da Bunuel, come invece sembrano affermare molti, troppi recensori. Smarrendo l'identità dialogica a favore di una irrazionale componente pittorica, la selva dantesca in cui prova a districarsi Adam diventa dunque un continuo, stantìo quadro vivente, in cui solo di tanto in tanto si colgono sprazzi di talento: non a caso, le immagini più sorprendenti sono quelle che si riferiscono al reale (la spiaggia, le ragazze in bikini) che scuotono l'uomo dal suo torpore con la freschezza dell'attualità. Perso tra documentario e plot anti-narrativo, Majewski trasforma la vicenda in una contorta ripresa di videoarte, ma senza particolari istinti poetici. L'unico sollievo al suo tormento Adam lo trova nel riposare, quando si abbandona al sonno: solo allora si ritrova persistentemente in uno stato onirico (donde il titolo), ma cercando di fornire risposte al suo dubbio esistenziale, cioè l'assenza di un Dio misericordioso e giusto, invece di rendere concreta la sua lacerazione la rende vacua, poiché ne enfatizza la necessità. Rende, cioè, evidente ciò che già è ampiamente sotteso e che dovrebbe restare in-visibile. Proprio per questo, ed è singolare in un'opera che dovrebbe trarre forza dalle immagini artistiche, resta meglio impressa la visione del mondo odierno, e non di quello parallelo e sognante. Tra supermercati ripresi alla Kubrick, aspettando cioè che succeda qualcosa e poi non succede nulla, girando tra le macerie polacche, e anche rifugiandosi nel suo studio, Adam prova, come Dante, a salire gli scalini del Paradiso, per trovare l'amata Basia-Beatrice. Eppure, nonostante una paradisiaca e robusta scena in cui i due corpi avvinghiati in un violento amplesso paiono librarsi in cielo, questa ricerca non fornisce forza alla vicenda, che si apre e chiude manieristicamente, in una chiesa e per trovare l'attenzione di uno spettatore annoiato da continue ripetizioni di frammenti danteschi, Majewski ricorre alla contorta vicenda della morte del presidente polacco in aereo, smarrendo completamente il discorso iniziale. Contorto, frantumato, privo di rigore, il film si avvita su sé stesso, e poco aggiunge la costosissima immagine dell'aratro (“non ce ne sono più”, ha detto il regista, “per trovarne uno siamo dovuti andare in Cina”) tirato da buoi che rompono la pavimentazione: l'eccesso di tecnologia prende il sopravvento sulla forma, deludendo completamente le attese di chi ricordava ben altro de l'autore de "I colori della passione " e “Il Giardino delle delizie”. Sopravvalutato.
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