Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Con Onirica, sua ultima fatica cinematografica, Lech Majewski (regista, produttore, scrittore e videoartista polacco) conclude la sua trilogia sull’arte iniziata nel 2004 con l’intrigante, ambizioso (ma solo in parte risolto) Il giardino delle delizie figurativamente ispirato dall’omonimo capolavoro di Hieroymus Bosch conservato a Madrid al Museo del Prado (ma in effetti tratto come andamento narrativo, da una storia ripresa dal suo romanzo Metaphisics che trasferisce sulla carne e nelle ossessioni dei suoi protagonisti alla ricerca di una bellezza che combatta lo spettro della fine dentro lo splendore decadente di una Venezia altrettanto delirante, l’Eden e la conseguente cacciata dal paradiso immaginate dal pittore). Il suo intenso e interessante lavoro introspettivo, è proseguito poi con l’ispirato I colori della passione (ad oggi il suo maggior risultato artistico) che nel 2011 aveva stupito il mondo per la bellezza formale e la profondità del contenuto, magistralmente costruito come è, intorno e “dentro” al quadro di Bruegel il Vecchio La salita al calvario (che è stata per il regista la maniera ideale per raccontare e rappresentare in un differente modo molto personale, il quadro, e con esso, la parabola terminale del Cristo crocifisso).
Questa volta la sua sfida è stata ancora più estrema, se si vuole, visto che ha scelto di entrare nel vivo della Commedia dantesca (perché di fatto è proprio questo che prova a fare con Onirica) da lui messa in scena di nuovo “alla sua maniera”, e quindi riproponendola più o meno otto secoli dopo – perché tanti ne sono passati da quando il sommo poeta l’ha composta - con un’ottica inusuale che certamente Dante non avrebbe nemmeno potuto immaginare, ma che – seppure con molte libertà - non ne tradisce assolutamente il senso (semmai lo rinnova e l’attualizza regalando nuove, inedite e altrettanto “forti” emozioni allo spettatore).
Diciamo allora subito che il processo non solo narrativo, ma anche figurativo seguito da questo talentuoso artista polacco, è qui volutamente svincolato da qualsiasi intento meramente illustrativo (non è né intende essere il Doré della situazione, insomma). La sua rilettura del poema la potremmo considerare semmai come un percorso di ricerca interiore che pone quesiti molto impegnativi e che, partendo anch’essa da una “selva oscura” ancor più “simbologica” (quella del dolore) prova, più che a interrogarsi, a esprimere dei dubbi su un Dio che non rinnega, ma che a suo avviso deve comunque diventare oggetto di discussione, perchè non può essere misericordioso e onnipotente al tempo stesso come di solito siamo stati abituati a considerarlo (pur arrivando poi nel finale a una “purificazione” che diventa anche “riconciliazione”).
Il risultato (e il riferimento non è alla Divina Commedia, ma al suo I colori della passione) è quello di un’opera altrettanto innovativa e coinvolgente, ma indubbiamente nel suo insieme meno unitaria rispetto allo straordinario esito di quella pellicola, non solo a causa della sua maggiore complessità (che indubbiamente ha il suo peso) ma anche perché qui viene ostentata un po’ troppo la “bravura” e la perizia tecnica, il che fa emergere a tratti il sospetto che il regista abbia avuto troppa voglia di “sbalordire” e di voler superare se stesso. Un eccesso di presunzione insomma che rende meno empatico un approccio che si avverte a tratti più di “testa” che di “cuore”.
Ciò non toglie comunque che ci sia anche qui un profondo coinvolgimento (probabilmente ancora superiore del passato) dell’autore e un fruttuoso lavoro di “ricerca” e di affinamento dello stile. Ci troviamo insomma a mio avviso di fronte alla sua opera più sentita (e anche meditata) fra quelle fin qui realizzate, il che ci fa perdonare l’eccesso di spavalda sicurezza che a volte lo fa andare un po’ oltre (compresa qualche piccola smagliatura), poiché ci si ritrova dentro la tangibile presenza di un “vissuto”che lo porta ad osare affrontando un terreno più ostico e insidioso senza per altro avere ancora alle spalle il supporto di quelle magnifiche opere pittoriche preesistenti di riferimento prese in prestito in precedenza e rese vive attraverso una esplicita “traslazione” che intendeva comunque essere molto di più di un tentativo – riuscito – di dare movimento e dinamismo a delle forme statiche di un dipinto, come ho cercato di spiegare nel primo paragrafo.
Qui se vogliamo, il percorso è semmai del tutto inverso perché attraverso il suo talento visionario, Majewski utilizza le esperienze maturate proprio nel campo della video arte, per comporre (“inventare”, direi con maggiore appropriatezza di linguaggio) un suo personale e inedito quadro in divenire, utilizzando la cinepresa a mo’ di un pennello digitale dei nostri giorni capace di stendere sulla tela grezza dello schermo i suggestivi “colori” della sua tavolozza “immaginaria”, e regalarci così le sue straordinarie figurazioni e l’oniricità di una concezione visiva che questa volta prova a materializzare non solo i versi (per altro letti magnificamente da una voce fuori campo) scritti dal grande poeta fiorentino, ma anche le figure che li animano.
La rilettura aggiornata del poema, viene insomma fatta utilizzando di nuovo statiche pose e virtuosistici movimenti affascinanti e misteriosi, che non temono di mostrare i debiti (estetici e morali) che il suo cinema ha nei confronti di Maestri come Tarkovski o Bergman (ma anche Kieslowski) e che l’uso delle tecnologie più avanzate di cui lui dispone adesso gli consentono non solo di esaltare, ma di portare in qualche modo a compimento nel risultato complessivo di una visionarietà abbagliante per turgore estetico delle composizione che probabilmente ad oggi ha pochi eguali (anche se in certe sequenze sfiora “pericolosamente” la ridondanza, come ho già avuto modo di accennare).
La storia è presto detta: Adam poeta e promettente professore universitario di letteratura, è sopravvissuto ad un incidente stradale in cui sono morti la sua compagna, Basia, e il suo migliore amico, Kamil. A seguito del trauma subito, decide di abbandonare l’insegnamento e si rifugia dentro a un centro commerciale (tempio laico della modernità e del consumismo), dove cerca di trovare un po’ di tregua al suo dolore leggendo la Divina Commedia, l’unica cosa che riesca a dargli momentanea pace.
Come Dante insomma, il nostro protagonista sente di trovarsi “nel mezzo del cammin di nostra vita”, sperduto in una selva oscura altrettanto metaforica che ha le sue radici nel profondo senso di colpa per quel tragico evento che lo ha lasciato illeso (l’intervento salvifico di un angelo custode molto terreno a cui persino le proprie ali sembrano pesante zavorra da sopportare?), ma ha causato la prematura dipartita di due persone a lui così tanto care. Una condizione esistenziale cupa e disperata che attraverso i sogni del suo dormire inquieto, lo porterà a varcare la soglia di quella porta al di la della quale inizia il disturbante viaggio della sopravvivenza, un percorso zeppo di simboli e allegorie rese tangibili dalle immagini per “reinventarsi” così con la fantasia fomentata dal desiderio, un mondo parallelo in cui è possibile incontrare le persone care, morti e fantasmi compresi.
Sono ovviamente quelle due morti a restare un pensiero talmente martellante quasi insostenibile da impedirgli – se non nelle pause ristoratrici del suo sonno - di riconciliarsi non solo con il mondo, ma anche con se stesso.
Vive dunque il reale quasi come una dannazione, una situazione che si interrompe solo quando dorme e sogna, poiché solo lì dentro ci sono – tangibilmente riconoscibili e soprattutto “vivi” - anche Basia (la sua Beatrice) e Kamil (il suo Virgilio) che lo condurrà per mano dentro a quel percorso immaginifico con il quale Adam prova a proseguire indenne la sua vita con un obiettivo da raggiungere ad ogni costo: ritrovare la sua amata e con lei ricongiungersi.
Dentro a un’esistenza priva di riferimenti, diventerà così alla fine proprio la Divina Commedia il testo sacro dell’interpretazione degli eventi che turbano la mente del protagonista in una costante alternanza fra le sequenze del vissuto reale e quelle immaginarie dei suoi sogni (o incubi) dentro le quali prende forma l’oniricità del suo mondo “altro” con un susseguirsi incessante di accadimenti visionari disegnati dentro a inserti di singolare presa ed efficacia, vedi la straordinaria forza evocativa della scena con l’aratro tirato dai buoi che trancia e frantuma la pavimentazione del centro commerciale, ma anche con qualche piccola, ingombrante caduta di stile (la ragazza col bikini) che provano a suggerire una lettura indubbiamente più sociologica che politica che si affianca a quella più profonda e privata delle proprie pulsioni in lotta con la sua coscienza.
Nel racconto filmico non mancano insomma interessanti – ma a volte un tantino scontati – riferimenti letterari e filosofici a sostegno del profilo esistenziale della storia, ma questo finisce per complicare ulteriormente le cose poiché nelle le vicende personali del protagonista si inseriscono quelle altrettanto apocalittiche della sua Polonia (le calamità naturali che la colpirono nel 2010 fra inondazioni, incendi e altre catastrofi, o l’incredibile incidente accaduto all’aereo presidenziale in cui persero la vita 96 esponenti del governo). Ed è soprattutto su tale versante (a volte troppo oscuro o difficile da interpretare nel contesto generale dell’azione) che – almeno io – mi sento di esprimere qualche perplessità (anche di natura etica ) che riguarda soprattutto l’eccessiva enfasi riservata alla morte del più che discusso presidente della nazione (e alla successiva sua inumazione nella cattedrale).
Ho già prima accennato non solo alla suggestiva, appropriatissima e appassionata voce che ripropone gli immortali versi danteschi (sicuramente un elemento da considerare tutto in positivo), ma anche all’opulenza visiva di una confezione indubbiamente “mirabolante” che ha però il difetto di eccedere troppo in allegorie e simbolismi (e come si sa, il troppo stroppia sempre). Per concludere (facendo un bilancio fra i pro e i contro) mi rimane dunque soltanto da affermare che pur con quelli che a me sono sembrati i punti deboli che non le permettono di raggiungere il rigore visivo e narrativo de I colori della passione, la pellicola resta comunque una interessante prova d’artista che merita rispetto, ma che mi sembra abbia invece fatto storcere il naso per lo meno a una parte della critica, molto di più del dovuto. Il mio è quindi un giudizio positivo con qualche riserva.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta