Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Claudia (Claudine Spiteri) è una storica dell’arte particolarmente attratta da uno dei capolavori pittorici di Hieronymus Bosch, “Il giardino delle delizie”. Vorrebbe fare un film documentario su questo dipinto, per chiarirne le complessità e anche per lasciare qualcosa di sé, visto che è ammalata di cancro e sente che non gli resterà molto da vivere. Si fa aiutare da Chris (Chris Nightingale), un ingegnere idraulico con il quale instaura una coinvolgente passione amorosa. I due si recono insieme a Venezia, e grazie alla videocamera con cui l’uomo è solito riprendere ogni cosa, “Il giardino delle delizie” fa da sfondo al loro rapporto lussurioso e al tentativo di Claudia di rivitalizzare attraverso l’amore per l’arte il senso della sua esistenza.
Liberamente lasciatosi ispirare dall’opera (omonima) del grande pittore fiammingo Hieronymus Bosch, “Il giardino delle delizie”del regista polacco Lech Majewski rappresenta il secondo capitolo di una trilogia dedicata all’arte pittorica (venuto prima di “I colori della passione” e dopo “Onirica”), film che riflettono sulla potenza dell’arte e sulla sua capacità di compenetrare la vita fino a dominarla. Se nel precedente (incentrato sull’opera di Peter Brueghel “Salita al Calvario”) un quadro prendeva letteralmente vita dando movimento agli articolati intrecci simbolici che lo caratterizzano, nel “Giardino delle delizie” è, invece, la vita che torna ad animarsi per effetto dell’amore per la pittura, lasciando che i corpi riscoprano il piacere primordiale di piacersi nudi, di riscoprire nella nudità della carne l’appagamento libero e totale dei propri sensi. Il film è costruito come una sorta di matrioska, le riprese della videocamera di Chris, mosse e approssimative, sono comprese nelle inquadrature più ampie e precise del film, che a sua volta è come dominato dalla potenza artistica sprigionata dai simbolismi pittorici voluti da Bosch per il suo Giardino delle delizie. Così come la (falsa) soggettiva insinuata dall’onnipresenza di una telecamera è soggiogata dalla capacità della pittura di prescindere dalla corruzione dei corpi. Lech Majewski mette in scena il continuo compenetrarsi tra arte e vita, con le immagini filmate a fare da collante elegiaco tra queste due entità che cercano di somigliarsi l’un l’altra, una cornice figlia della sua contemporaneità, e che come la grande pittura di ogni tempo sa dare immortalità al senso della vita proprio nel momento in cui ne delimita con precisione geometrica i contorni spazio temporali.
Carla convive col senso di morte e cerca di sublimarlo nell’amore viscerale che ha per l’arte, immergendosi proprio in quell’opera di Bosch che cerca di esorcizzare alla radice il senso di morte sovvertendone i principali connotati filosofici (di derivazione dantesca). “Ogni cosa è permessa nel giardino delle delizie, la proibizione è priva di senso poiché è la libertà assoluta che ci rende uguali a Dio. E non saremo puniti per aver rubato una mela, perché il bene e il male sono stati riconosciuti e neutralizzati, e hanno perso il loro potere condizionante”. Questo dice Carla in una delle sue dotte lezioni sul quadro, e in ossequio allo spirito di queste parole, la donna e Chris cercano di costruire un proprio paradiso terrestre lasciandosi avvolgere e coinvolgere dai particolari che compongono il quadro nel suo insieme composito, un paradiso dove la nudità dei corpi che si accoppiano sessualmente serve a sublimare l’amore per la bellezza eternata dalla pittura. Amore che si fa attaccamento per quella vita che veramente vale la pena di essere vissuta. Con la libertà dei propri corpi Carla e Chris vogliono rivitalizzare innanzitutto se stessi imprigionando ogni loro azione nell’obiettivo dominante di una videocamera. Il fine ultimo della donna è quello di fare un film per immagini ripercorrendo punto per punto tutta la complessa coralità dell’opera del maestro fiammingo. Un esperimento che ha anche un valore testamentario, che nasce quasi come un gioco, ma che poi sembra impossessarsi della volontà dei due amanti fino a non rendere più distinguibili l’amore per l’arte, l’attaccamento alla vita e il piacere lussurioso per ogni istante in cui i corpi di entrambi possono godere della reciproca vicinanza. Il risultato (più o meno inconsapevole) che se ne ricava fa perno sul diverso modo in cui l’immagine può cambiare registro evocativo rispetto alla diversa espressione artistica che la caratterizza. Se nella pittura si catturano significati resi eterni ed universali attraverso la loro portata simbolica, il cinema ha a che vedere con il tempo che passa e la vita che scorre, quindi, con degli scenari che forma e dei corpi che sono destinati a corrompersi. Se nella pittura la forza di un’immagine è resa tale dalla sua irripetibile unicità, un attributo esiziale che gli consente di vincere l’usura del tempo rimando sempre uguale a sé stessa, al cinema (come ci suggerisce il finale) la ripetibilità delle immagini, se da un lato è resa possibile dai prodigi della tecnica, dall’altro lato, si fa necessaria per la mancanza della sua musa ispiratrice. L'eternità fissata dalla pittura basta a se stessa, quella resa possibile dalla riproducublità cinematografica si relaziona alla trasitorietà (spaziale e temporale) degli scenari catturati dalla macchina da presa.
Quello di Lech Majewski mi sembra un cinema che si sofferma a ragionare sull’alterità dell’arte cinematografica e sulla sua innata possibilità di interagire con e attraverso la pittura al fine di rivitalizzare continuamente il proprio linguaggio. Detto altrimenti, nelle intenzioni dell’autore polacco, certificare la potenza evocativa della pittura attraverso un rapporto così intimo con le immagini filmate, significa compiere un gesto forte di umiltà che può servire al cinema a fortificare con decisione i suoi particolari connotati stilistici. Film (e cinema) molto interessante, da consigliare.
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