Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Il giardino delle delizie, prima opera della trilogia sull’arte, nella quale il regista considera non solo il rapporto tra l’esistenza e la sua raffigurazione artistica, ma anche quale sia il senso di questo rapporto, e se possa essere inoltre un tramite per conglobare tematiche quali il mistero dell’essere, il rapporto tra realtà e sua rappresentazione, e fino a che punto un istante possa essere eterno, e se l’eternità non sia proprio nell’attimo, che nel suo dileguare dilegua il dileguare stesso.
Questo film è davvero un’opera d’arte, perché innanzitutto è un film nel film, nel senso che viene ripreso nel suo farsi, quasi a dire che la realtà è qui ed ora, proprio quella che stiamo guardando nel film, e che dunque, in secondo luogo, non è soltanto un film da vedere, ma anche da vivere, perché noi stessi siamo testimoni delle riprese e in qualche modo partecipi delle vicende che le caratterizzano. E allora dove sta la realtà? Forse è soltanto una rappresentazione? Chi lo sa, ma è anche vero che i sogni non sono meno veri della stessa realtà, soprattutto se tali sogni, vissuti nella realtà a sua volta ripresa nel film, vengono a patti con la realtà, squarciandone la finitezza, consumandola fino fondo in un eros che riempendosi di finitezza fino all’ultimo sussulto di vita, viene immortalato in una videocamera che avrebbe dovuto essere la rappresentazione vivente del quadro di Bosch.
E’, per dirla in termini più crudi, la tematica dell’esistenza in rapporto alla propria trascendenza, qui raffigurata nell’arte pittorica, che a sua volta diventa cifra della trascendenza, che nessuno può rappresentare se non come traccia evanescente, ma che resta come lume trascendentale della temporalità esistenziale. Si capisce che già da questa prima opera della trilogia sull’arte, il regista vuole rappresentare l’esistenza e la sua propria trascendenza, dapprima colta nella sua immediatezza, nel Giardino delle Delizie, poi nella sua riflessione in se stessa, nei Colori della passione, dove il calvario di Cristo è nel quadro vivente di una comunità fiamminga che riattualizza la propria la Coscienza infelice, e infine fuori dal quadro, per ritornare a sè, al punto di partenza ma ora mediato, come in Onirica, perchè l’esistenza non afferma più la vita, sublimandola nell’arte contro la propria inevitabile fine, ma è un’esistenza che si interroga sul senso della vita fino a mettere in gioco la presenza-assenza di un Dio in una lancinante sofferenza onirica del protagonista, nella sua formazione spirituale attraverso le trasposizioni della Divina Commedia.
Forse dopo aver interiorizzato l’intera trilogia sull’arte, si può ritornare a considerare il primo film Il giardino delle delizie come un vero e proprio capolavoro, non solo per lo stile ma anche per il contenuto che vuole trasmettere alla luce delle due opere successive. A proposito del primo film centrale è proprio lo stile, perché, credo, abbiamo a che fare con un’opera in cui lo stile stesso è in gran parte il contenuto, il quale perciò, proprio perché diventa veicolo dello stile, è alquanto più drammatico e scomodo di quanto possa apparire a una prima visitazione. Il contenuto infatti di per sé possiamo anche minimizzarlo fino al ridico, se lo consideriamo astrattamente, prescindendo dallo stile che esso veicola. Si tratta di una coppia di innamorati inglesi, Claudine e Chris, lei critica d’arte e lui ingegnere, lei alla ricerca di una perfezione eterna contro il suo essere malata terminale a causa di un cancro alla gola, e lui funzionale alla ricerca dell’immortalità, perché, non a caso, immortala tutto nella propria videocamera, di modo che il film che vediamo non è altro che una storia d’amore, che cerca ostentatamente di imitare il Giardino delle delizie di Bosch, anche con l’intenzione velleitaria di farne un film, che possa premiare lo studio appassionato della giovane ricercatrice sulla grande opera di del pittore. Infine sopraggiunge la morte di Claudine, e tutto quel che ne resta rimane nella videocamera, quasi a testimoniare che il tentativo dei due innamorati di eternizzarsi nel quadro di Bosch è forse riuscito, ma non perché se ne sono fatte le riprese, ma perché in quelle riprese vi è stata tutta una ricerca, da parte degli amanti, dell’amore attraverso l’arte, e dell’arte attraverso l’amore, un’arte erotica imperitura, che coniuga, come l’eros platonico, i mortali e il divino. Questo il contenuto, la trama. Ma è proprio nello stile che tale contenuto si amplifica e diventa un'opera nell'opera.
Il film allora è soprattutto nello stile, nella bellezza delle immagini riprese a mano, attraverso le quali i due partner riflettono sulla vita e sulla morte, e su come debellare la morte attraverso l’amore, riproducendo e vivendo alcuni momenti presenti nel Giardino delle delizie. Forse per apprezzare meglio il film conviene sapere qualcosa di Bosch, e del suo Trittico ma, anche senza sapere nulla come il sottoscritto, il film, in maniera molto fenomenologica, ci fa entrare nell’opera del pittore, grazie alla ripresa dei suo tratti, delle sue rappresentazioni, commentate dalla giovane Claudine, mentre l’innamorato ingegnere riprende lei che commenta e le immagini del quadro, che poi vengono ricostruite da loro stessi, in modo artigianale e vivente, trasportandosi nella loro passione erotica, ma non indifferente alla morte imminente. Tutto ciò accade a Venezia, città elettiva per la trasfigurazione della morte in eternità, in cui gli opposti si attraggono, le luci sono possibili nelle tenebre, e dove tutto è sfumato, e il bene e il male finiscono per attorcigliarsi in una sorta di decadenza paradisiaca.
Il film si dipana pertanto due filoni: l’uno proteso a considerare l’opera di Bosch in se stessa, e l’altro a rivivere quest’opera da parte dei due protagonisti, nel loro amore, non esente dalla minaccia incombente della morte, ma proprio per questo ancor più drammatico e sublime nella sua innocenza offesa.
Per quanto riguarda il primo filone il regista, attraverso la voce di Claudine, ci lascia un’interpretazione essenziale sul Trittico, perché si contrappone, in modo dialettico, a quella di Onirica. Il giardino, infatti, starebbe a rappresentare il riscatto dell’umanità, comunque condannata, dalla conoscenza del bene e del male, "perché, a differenza di Dante, a Bosch non interessa il purgatorio", la contrizione del pentimento come contraltare del peccato, anzi libera tali esistenze che hanno sofferto per mano della loro anima e li raffigura nell’opera centrale del trittico, nel Giardino delle delizie, “riempendolo con creature di ogni genere in una danza erotica di pace e di trasognato ozio, tanto ostile alla guerra quanto alla solitudine”. Ecco l’immediatezza di cui parlavo prima. Possiamo vedere alla luce delle opere successive, come qui l’esistenza, pur sapendo di essere condannata alla morte, non accetta una soluzione metafisica, ma vuole consumare nel qui ed ora la propria finitezza, trasfigurandosi, nell’attimo, in eternità, con tutta l’assenza di senso che ciò comporta. La maestria del regista sta, in questo caso, nel far vedere fino in fondo quanto sia esile questa immediatezza, quanto possa sconfinare nel fastidioso kitsch, come in fondo sia inutile e gratuito non accettare la morte, eppure, proprio questo messaggio il regista lo esamina fino in fondo, senza sosta, per scorgerne comunque la dignità profonda, che nelle sue proprie misure, trattene in sé, inconsapevolmente, anche se negandola, la trascendenza stessa.
Tutto questo lo vediamo meglio nel secondo filone, quando i due amanti praticano il loro amore riproducendo elementi del Giardino e del Trittico in genere. Pensiamo ad esempio alla valigia, in cui Claudine e Chris si rinchiudono per raffigurare l’immagine della conchiglia da cui fuoriescono le gambe di due persone, o quando Chris cerca di mantenere in equilibrio sul suo capo l’uovo quale simbolo dell’armonia del tutto, oppure la sequenza della fontana, fino alla luna in nylon in cui si consuma il piacere, senza dimenticare il pentagramma che Claudine dipinge sulle natiche di Chris, e altri esempi come il rospo e i gusti del palato.
Che dire allora di questi due innamorati, che riproducono il Giardino delle delizie, con l’intenzione di affermare la vita al di là della sofferenza inaggirabile, rinnegando il peccato, il pentimento, la trascendenza, immortalando tutto in una telecamera, anche se sanno benissimo che prima o poi Claudine se ne andrà per sempre, segnata da quel male incurabile, che guarda caso è il cancro alla gola, se per gola intendiamo l’organo del desiderio, della golosità, della vita insaziabile...? Come ho ribadito, quest’opera va rivista alla luce delle due successive, perché soltanto così possiamo capire che il Giardino delle delizie è il manifesto esistenziale della coscienza offesa, che rinnegando le false teodicee, cerca nella finitezza del reale, quell’eternità che soltanto l’estetica, seppure nella sua idealità, può riprodurre. Ma allora l’estetica, l’arte, il quadro stesso diventano un tramite di conciliazione tra i mortali e il divino, e soltanto così si potrà entrare in quel quadro vivente che è I colori della passione, per contemplare con religioso disincanto il calvario di un’umanità macerata nel corpo di Cristo. Una volta diventati corpo di quel corpo, riusciremo dal quadro, e forse ricorderemo il Giardino delle delizie come un semplice inizio, umanissimo, verso un divino che si nasconde e soltanto nell’Onirico trapela, per restituirci alla possibilità di incontrare l’esistenza risorgere a se stessa nell’angoscia di Adam-Kierkegaard.
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