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Second Chance

Regia di Susanne Bier vedi scheda film

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alan smithee

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Second Chance

di alan smithee
4 stelle

I destini di due neonati, appartenenti a due strati sociali differenti, si cedono drammaticamente il posto quando un evento tragico interviene a devastare l'esistenza di quello, almeno in apparenza, più fortunato. La Blier si cimenta in un noir melodrammatico spurio, che osa troppo e sbanda clamorosamente verso una macchinazione assurda e forzata.

Quando si dice “l’importanza di nascere nel posto giusto, oltre che nel momento giusto”, non si tiene conto di quanto succede in questo film “forte”, se vogliamo sin sconvolgente, della regista premio Oscar danese Susanne Blier.

Due neonati: uno nasce in una famiglia di genitori belli e benestanti, papà poliziotto, mamma avvenente e bionda come la Barbie; l’altro, poverino, capita ad una coppia stracotta e violenta di tossicodipendenti: nemmeno brutti, ma di certo brutali, inaffidabili, devastati, che si iniettano dosi lasciando la creatura a piangere dentro il mare di cacca che il poverino si è fatto inevitabilmente addosso: situazione estrema un pò differente da quella dell'altro esserino, al contrario curatissimo e, almeno apparentemente, protetto e al centro di ogni attenzione.

Le vite dei due, almeno indirettamente, si incrociano quando il poliziotto e padre del primo bimbo (un Nikolaj Coster-Waldau ormai star consolidata e tra le più note ed esteticamente più apprezzate, almeno nell’ambito della cinematografia Nord-europea) accorre in casa della coppia di drogati per sedare una lite, e si accorge delle condizioni disperate in cui versa il neonato.

Poche notti dopo al figlio della coppia “regolare”, succede il dramma: il bimbo pare dormire stranamente tranquillo e quieto, per una volta, ma quando la madre si avvicina per accarezzarlo, si accorge che il piccolo è freddo e non respira: “morte nella culla”, sentenziano i fatti, secondo i segni distintivi di una sindrome meno rara di quel che si possa pensare. Conseguenza: una madre distrutta dal dolore, resa quasi folle dalla situazione, e che si fa promettere al marito di non avvisare nessuno; al poliziotto, devastato, non resta che agire d'istinto e prendere in mano la situazione, approfittando dell'esperienza ancora fresca dei giorni passati, e commettendo pertanto un'azione impossibile, improbabile, al limite del diabolico: convincendosi, e cercando di farci convincere, di aver preso la decisione giusta nel momento più favorevole. Condannando a pena (ingiusta?) chi moralmente merita una condanna (divina?), e aggiustando in modo un pò "artigiano" ma coerente una situazione sbandata oltre ogni aspettativa.

Inutile e fuori luogo rivelare qui nei dettagli cosa realmente succede, ma la verità, per quanto sfacciata, è cosa sconvolgente, oltre che davvero improbabile; come improbabilissima è la svolta che prende da quel momento la vicenda, nella quale parte integrante come tassello risolutore, assume l’amico poliziotto del nostro protagonista, impersonato dal noto ed apprezzato attore danese Ulrich Thomsen, alcolizzato e solo, a differenza del suo collega perfetto e felice, ma in grado, da pochi dettagli, di venire a capo della incredibile verità, in tutte le sue più devastanti sfaccettature.

Il cinema, nel suo complesso e nella sua eterogeneità, è bello perché si può, tramite esso, raccontare tutto ciò che si vuole, anche scendendo a patti con le storie più devastanti, intricate ed improbabili.

La cronaca, di qualsiasi colore essa sia, ci sciorina peraltro notizie a volte così sconvolgenti da farci ammettere la teoria secondo la quale certe volte "la realtà supera la fantasia". Tuttavia qui, in Second Chance, la Blier prosegue imperterrita nel suo ostinato intento indagatore che ha avuto frutti più riusciti e maturi in altre occasioni, e sbaglia completamente stile e toni di racconto: raccoglie azioni e situazioni forti, supponendo che basti l’accumulo di emozioni per rendere auspicabile una serie di avvicendamenti davvero troppo lasciati al caso, alla combinazione fortuita, alla intuizione del singolo; insomma la cineasta porta avanti imperterrita il suo drammatico susseguirsi di tragedie e colpi di scena, senza mutare mai lo stile rigido, lucido e cronachistico del suo linguaggio, che pertanto finisce per assumere tonalità grottesche e davvero poco idonee a mantenere la storia entro i limiti di un atteggiamento produttivo e pertinente, ma che invece appare palesemente ricattatorio e moralista.

Non sono in grado, a questo proposito, di asserire che un atteggiamento o l’utilizzo di toni più ironici, piuttosto che magari l’adozione uno stile più noir e meno melodrammatico, avrebbero giovato maggiormente al film rendendo più digeribile l'amalgama.

Fatto sta che la vicenda si segue indubbiamente con una innata, forse anche morbosa curiosità e una qual forma di masochistica partecipazione, oltre che grazie ad un coerente, inevitabile senso di inquietudine; ma nel complesso il film risulta troppo furbo e freddamente calcolato,  e naufraga clamorosamente, affossato da un’ondata spiazzante di (melo)drammaticità che si impossessa dei vari filoni a cui cerca invano di aggrapparsi la storia, rendendo zoppi sia la parte concentrata sugli elementi di un’ indagine poliziesca dai risvolti inverosimili (troppi particolari stridono o vengono tralasciati, trascurati, abbandonati a se stessi), lasciata un po’ al caso e alle intuizioni imprevedibili di un poliziotto alcolizzato, sia l’aspetto improntato sulle differenti connessioni di un inevitabile raffronto di ceti o classi sociali: risultante quest'ultimo decisamente schematico e grossolano, svilito da semplicistiche rappresentazioni di ambienti casalinghi diametralmente opposti, poco efficaci entrambi, o simbolicamente troppo puerili per dare una rappresentazione realmente concreta del malessere che regna in entrambe le differenti dimensioni.

 

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