Regia di Susanne Bier vedi scheda film
“ Siamo logici: se si vuole analizzare tutto e costruire tutto in termini di plausibilità e verosimiglianza, nessuna sceneggiatura che si basi sulla finzione resisterebbe ad una simile analisi; a questo punto non resterebbe che una cosa da fare: dei documentari. “ (da Il cinema secondo Hitchcock).Parafrasando un altro titolo di successo della regista Susanne Bier, la potremmo definire sempre più proiettata alla ricomposizione di “un mondo migliore”(2010) ma a differenza del lavoro per il quale le è stato riconosciuto un premio Oscar come miglior film straniero, in A second chance amplifica e ingarbuglia notevolmente le implicazioni psicologiche dei personaggi per metterle al servizio di un genere più vicino al thriller. Non è che l’unione di due linguaggi differenti non riescano a compenetrarsi, diciamo però che si trovano su due piani distinti, e la Bier dimostra però di potersi affermare più come abile tessitrice di materiale cinematografico adattando schemi preordinati e sicuri a scapito di una cifra , o di una deriva a secondo dei punti di vista, marcatamente autoriale. L’ennesima seconda volta che il suo cinema offre sempre come svolta morale, implica lo sfruttamento di un congegno sperimentatissimo e altrettanto rivisitato da formidabili autori, resta da capire quanto e in che misura voluto dalla consapevolezza della regista. Le pregiudiziali narrative che mette in atto lungo il racconto che risulta gradevolmente avvincente dall’inizio alla fine, sono abbastanza numerose e costanti, tenendo la storia dentro le sue linee guida in maniera ineccepibile. Due nuclei famigliari distinti, di identica composizione ma di condizione sociale estremamente diversa incrociano il loro destino. Buoni, borghesi, perbenisti e benpensanti gli uni, sporchi, cattivi e ultra tossici gli altri, con entrambi un neonato a carico. Va da sé che un piccolo dovrebbe fare la vita del principino e l’altro ripercorrere le peggiori vicissitudini di un protagonista delle fiabe dei Grimm. La costruzione che genera la tensione, il thriller, deriva dalla trasformazione psicologica innescata dai personaggi. La Bier, stavolta, calca veramente la mano su numerosi snodi che richiedono allo spettatore una continua condiscendenza passiva per il bene della storia che deve andare avanti. Il lavoro che la regista fa sui personaggi, e in particolare su Andreas il poliziotto, capofamiglia del nucleo buono, è funzionale allo svolgimento del racconto ma è fin troppo pieno di cambiamenti, di colpi di scena che lentamente disarmano la capacità di giudizio dello spettatore. Come è riuscita bene a mettere in primo piano le caratterizzazioni e i dilemmi morali che muovono i quattro adulti protagonisti, il susseguirsi frenetico dell’azione di Andreas tende a ridurre lo spazio di messa a punto di una riflessione autentica che la tragica vicenda richiede. Il ribaltamento emotivo e l’adeguamento al suo nuovo stato di essere e di agire diventa un po’ sistematico e capace di contaminare ciò che accade intorno. Esemplificativo il rapporto controverso con il suo amico e collega Simon che da sospettoso, in quattro battute si erige a giudice risolutore e assolutore. Eppure A second chance vorrebbe parlare di realtà e della sua rappresentazione, senza sconti o cedimenti, forse con qualche scorciatoia fornita dalla buona forza dell’immaginazione. Che poi la Bier stessa dichiari di temere le tematiche complesse, di volersi sfidare di continuo col suo sceneggiatore su dilemmi morali che non portano mai ad una posizione inequivocabile, pone una ulteriore domanda sulla natura stessa del film, profondissimo dramma interiore a tinte forti o uso strumentale di tali caratteri per infarcire una trama arditissima fino dalla prima inquadratura?
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