Regia di Susanne Bier vedi scheda film
E’ un 2014 decisamente pieno per Susanne Bier, reduce da una non proprio felicissima trasferta americana (“Una folle passione” (Serena), 2014) giunta peraltro dopo “Love is all you need” (2012) nel quale aveva abbandonato per buona parte la Danimarca per la costiera sorrentina con esiti altalenanti (divisione marcata tra detrattori ed estimatori).
Con “En chance til” (già iscritto nel listino Teodora per una prossima distribuzione italiana) torna così pienamente nella sua terra raccontando una storia che colpisce ancora più duramente nel profondo delle sue precedenti, ma allo stesso tempo amplifica anche i difetti, ovvero pecca di solidità all’interno della lunga sfilza di fragorosi colpi di scena che si susseguono copiosamente.
La vita del poliziotto Simon (Nikolaj Coster-Waldau) subisce una forte scossa quando durante un controllo di routine presso un tossico violento sotto il suo controllo trova un neonato maltrattato, per il quale però non può fare tutto ciò che vorrebbe a causa delle limitazioni imposte dalla legge.
Quando a casa la sua vita familiare prende una piega drammatica decide velocemente di compiere un’azione eclatante che porterà a conseguenze inaspettate che cambieranno irrimediabilmente la sua vita (e non solo).
Di certo Susanne Bier non è una regista che ama lavorare in sottrazione, ma questa volta in tal senso si supera proponendo un contesto di raro degrado che chiama ad azioni talmente discutibili da provocare riflessioni molteplici (se ne potrebbe parlare per ore ed ore) che spaziano dal contesto familiare (cosa c’è di più prezioso di una nuova vita?) a quello sociale (la giustizia che non funziona come dovrebbe) finendo col divenire praticamente universali.
Mai avevo visto in un film la presenza di neonati vittime di sopprusi così cocenti (già all’inizio ne vediamo uno che piange coperto dalle sue stesse feci), che diventano il corpo centrale di quasi ogni comportamento degli altri personaggi.
A tratti è addirittura difficile tenere aperti gli occhi (a Torino nella sala in parecchi sono usciti anzitempo), Simon non accetta quanto vede, e nemmeno quanto suo malgrado gli capita di subire, e all’interno del suo dramma privato arriva a prendere decisioni che hanno dell’incredibile.
Da qui è un susseguirsi di nuovi spunti che spostano sempre più nel marcescibile il contesto generale che continua a regalare “sorprese” per lo più nefaste al protagonista, tra implicazioni (si può accettare il fato davanti a certi accadimenti?) atte a generare il dibattito personale e sociale e motivazioni profonde che non si possono accantonare facilmente.
Purtroppo se il film è un pozzo di mutazioni e di costanti novità su un filo tesissimo è altrettanto vero che legare tutto è impresa ardua e che più volte l’insieme sbanda paurosamente (ad esempio ad un certo punto viene inscenato un finto rapimento talmente bislacco da far torcere il naso se non addirittura sorridere), ma almeno viene evitato il totale “patatrac” sul finale, appena accenato e poi accantonato per quanto anche su questo ci sarebbe da discutere per via di un po’ di leggerezza (difficile credere che Simon se la cavi così).
Opera quindi dai connotati spiazzanti, dolorosi (difficile immaginare pur volendo qualcosa di più amaro e violento) e contrastanti con un titolo multiuso che ben si addice alle scelte di più di un personaggio (appropriato almeno per tre) e che rivede Susanne Bier tornare a far discutere ed ancora più del solito.
Nel bene e nel male (sicuramente dividerà drasticamente).
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