Regia di Douglas Sirk vedi scheda film
Il passo d’addio di Douglas Sirk ad Hollywood coincide con il suo maggior successo di cassetta. Remake dell’omonimo film del 1994 più che nuovo adattamento del romanzo Imitation of Life, è, come tutti i film di Sirk, tutt’altro che scontato. Inizia con una pioggia di pietre preziose, forse diamanti, che però sembrano lacrime, per come cadono dall’alto con rigorosa agilità, e finisce in un fiume di lacrime (cuore di pietra chi non piange al cospetto della tremenda scena in cui muore Annie e s’inquadra la foto della sorridente Sarah Jane).
Giocato sulla specularità che sfiora qua e là la stilizzazione e lo schematismo (bianca contro nera, ricchi contro poveri, miseria contro sfarzo), nonché sull’estremo utilizzo di specchi su cui si riflettono i volti di coloro che si ritrovano soli con se stessi (lo specchio della vita, appunto), necessita di più di una riflessione a partire dal titolo originario: quelle di Laura, di Annie, di Susy e di Sarah Jane sono imitazioni di vita, perché vanno al di là delle esistenze vere e proprie, si imitano e si smarcano a vicenda in continue corse ed inseguimenti del cuore.
Trionfo dell’infelicità (addirittura Laura dice che il suo pigmalione, uno scrittore di teatro, scrive così tanto per non accorgersi del fatto di essere irrimediabilmente infelice) senza via di scampo, dominato da un turbinoso vortice di passioni che, ovviamente come in tutta la sacra filmografia melodrammatica di Sirk, si riflette in scelte cromatiche emozionali (che si adattano ai gusti e alle logiche della MGM) che esprimono sempre uno stato d’animo ben preciso, è un grande film sui lati oscuri e sui fantasmi dell’American Dream, che abbraccia dieci anni di storia patria (si parte negli anni quaranta in una spiaggia affollata, reazione ai tristissimi giorni della guerra e si finisce alla fine degli anni cinquanta in cui tutti sono più o meno realizzati e imbrigliati nei propri sistemi) attraverso il microcosmo delle quattro donne protagoniste, in cui si può trovare tutto (complessi di Edipo, complessi di colpa, razzismi intimi, dalle stalle alle stelle, morte, amore e chi più ne ha più ne metta) e di cui è francamente impossibile non trovare il contrario di tutto: estremo, passionale, strepitoso.
Torbidamente rapportabile a certi fattacci della sua vita privata, è la prova migliore di una Lana Turner in gran spolvero, al cui fianco c’è la debuttante Juanita Moore, quintessenza della dolcezza e dell’affettuosità. Scena finale con coro gospel capitanato da Mahalia Jackson clamorosa e sinceramente indimenticabile.
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