Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Questo Prologo a The Great Desaparecido potrebbe anche essere un prologo-summa al/del cinema di Lav Diaz, autore che in molti potrebbero tacciare come "da festival" ma che invece ha dalla sua un apparato poetico non da poco e un'inventiva visionaria in cui la "lentezza" e l'andamento ipnotico assumono un ruolo fondamentale. Dunque colpisce molto trovarsi di fronte a un suo grande film dell'esigua durata di mezz'ora, in cui succede praticamente l'opposto di quello che normalmente si desidera da un film: i semplici trenta minuti si estendono, si allungano a dismisura, finiscono per contenere l'indimenticabile magniloquente linguaggio di Diaz, che non rinuncia alla natura contemplativa della sua arte pur nella rinuncia alle sue solite gigantesche durate. Non c'è alcun tipo di struttura narrativa, e paradossalmente in sì breve minutaggio assorbiamo tutto ciò che c’è da sapere del cinema nudo, crudo e puro del regista filippino.
Non le sue storie, bensì le sue immagini, si affollano spaesate sullo schermo senza curarsi di indicare allo spettatore la conseguenzialità o l'eventuale legame che le tiene tra di loro adese. Siamo nel 1897, le Filippine sono ancora soggette ai disastri del colonialismo, e per un regista che sempre ha osservato il suo Paese come vittima della terribile dittatura di Marcos, quest'altra calamità storica dev'essere una sorta di "peccato originale", il primo colpo di grazia contro un intero popolo che, come in Florentina Hubaldo, CTE, anche qui vaga senza meta, disperato, incarnato dal corpo di Hazel Orencio, vagabonda diaziana per eccellenza. Anche qui il suo sguardo si rivolge direttamente alla telecamera, agli spettatori, e chiede aiuto. In modo che la sofferenza si renda improvvisamente palpabile. Pur nell'evidente vittimismo (d'altronde giustificatissimo), Diaz non si compiace dell'afflizione dei suoi personaggi, ma si tiene sempre vicino e distante al contempo, grazie alle sue splendide immagini in bianco e nero che azzerano gli impulsi vitali (pur in cotanta florida Natura vegetale) e destinano le sue anime a un Inferno sulla Terra. I contrasti fra gli esterni e l'improvviso interno che appare a metà film richiamano a quello straniamento che tanto aveva entusiasmato in Century of Birthing e che qui trionfa in ogni singolo attimo: c'è qualcosa di assente che non esiste più, una qualche spinta vitale, un motivo per vivere anche appena abbozzato, un piccolo indizio di salvezza e speranza. Forse sono proprio la vitalità e la gioia ad essere le great desaparecidos di questo film e di tutta la filmografia del regista filippino. Chissà cosa sarebbe venuto fuori se questo film avesse avuto la stessa lunghezza delle sue altre pellicole, e avesse soddisfatto il progetto iniziale del regista: resta il fatto che, anche così, ha un forte che di immensità.
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