Regia di John Erick Dowdle vedi scheda film
"L'unico modo per uscire è scendere"
Prendere spunto dalla mitologia greca e latina, rovistare nel millenario pensiero alchemico, ispirarsi all’inferno (e al purgatorio) dantesco per realizzare l’ennesimo mockumentary horror?
Sì, si può fare.
A renderlo fattibile è John Erick Dowdle, già artefice della riuscita commistione di generi nel racconto morale Devil, da un’idea di M.Night Shyamalan.
Secondo i fratelli Dowdle (il regista ha scritto col fratello Drew la sceneggiatura), i moderni inferi sono da rintracciare nelle suggestive inquietanti tenebrose catacombe parigine, ovvero una arzigogolata rete di tunnel sotterranei che percorre l’intera urbe d’oltralpe, contenente oltre 6 milioni di resti (ossa e teschi) dei suoi antichi abitanti, perché il fetore nauseabondo della carne in decomposizione dei cadaveri non appestasse più la città ma restasse ben confinato nelle segrete oscure, nascosto negli abissi di un nulla assoluto su cui poggiano le fondamenta della Parigi baciata dal sole, quella che tutto il mondo conosce.
Le catacombe sono la città sotto la città, quella abitata dai morti.
Sono il regno dell’oltretomba: più ci si addentra nel sottosuolo, più ci si allontana dalla luce.
E più aumenta il rischio di non fare più ritorno in superficie.
Chiunque sia tanto intrepido o folle da tentar l’impresa di spingersi nelle sue insondabili profondità, dovrà vedersela con un ambiente strutturalmente angusto, claustrofobico, pericolosamente pericolante, minacciosamente insidioso, che si trasforma in un inferno ad occhi aperti quando questo si fa luogo fisico della propria coscienza, lo scrigno funesto in cui sono racchiusi e rinchiusi (con la forza) i fantasmi di un’intera esistenza, i demoni interiori portatori di perenne tormento, della cui esistenza è preferibile non profferir parola.
Dimenticarsene, per sempre. Magari fosse possibile.
E allora non resta che seppellire nel fondo più in fondo, in anfratti che ci illudiamo irraggiungibili, imperscrutabili, il personale fardello dei propri inconfessabili sbagli, del proprio giammai quiescente ma logorante senso di colpa. E ricoprirlo, fino ad oscurarlo, delle macerie di una frenesia di vita che esclude ogni possibilità di introspezione.
Guardare dentro la traumatica ferita che ognuno possiede comporta immenso coraggio.
E non tutti sono in grado di sopportare il sordo dolore che implacabile rimbomba tra le pareti dell’anima.
È puro terrore, da ghiacciare il sangue. È l’atto istintivo a non guardare, a non accettare, a fuggire via, lontano. Ma dove…
Eppure di gente matta ne è piena la terra. E come un vecchio detto asserisce, i pazzi sono quelli che più si avvicinano a Dio.
E, quindi, alla verità di tutte le cose.
Una determinata intraprendente audace o incosciente (o entrambe le cose) ricercatrice della verità (storica) trascina con sé un suo collega-amico-più di un amico, diviso tra il parecchio riluttante e l’insaziabile sete di abbeverarsi alla fonte della conoscenza, un cameraman facilmente impressionabile e 3 guide locali poco ortodosse in un viaggio-odissea sottoterra.
Al centro (che pare non avere centro) della terra.
Per recuperare la preziosissima pietra filosofale. Che gli studi del padre, anch’egli archeologo (anch’egli folle), ritenevano potesse trovarsi proprio nelle oscure cavità -al di sotto della suola delle scarpe- parigine.
Il gruppo sarà traghettato da un inquietante Caronte, alla volta degli inesplorati recessi cavernosi, faccia a faccia col proprio io messo a nudo.
(Ri)usciranno a riveder le stelle?
Partito come il solito mockumentary horror, Necropolis si rivela ben presto una folgorante sorpresa. Sempre ad un passo dal baratro del già visto ---i contenuti non sono certo originalissimi ma ben congegnati; fanno ricordare, così a caldo, il thriller metafisico Linea Mortale di qualche annetto precedente---, il film si rivela tutt’altro che anonimo, banale e piatto. E quel baratro lo sfiora appena un paio di volte ma non finisce mai per sprofondarci dentro e rimanervi inesorabilmente impantanato.
Al di sopra della media (del genere di appartenenza), presenta uno script articolato e dotto come da tempo non se ne vedeva, ed è forte di una marcia in più attinta dal racconto d’avventura, con una strizzata d’occhio alle memorabili gesta dell’archeologo più in gamba (e sexy) del pianeta celluloide, l’Indiana Jones di papà Spielberg.
‘Escursioni’, le sue, sempre condotte sul filo del rasoio, tra codici da decifrare, enigmi-oracoli in rima baciata, in costante bilico tra scienza e fede (basti ricordare la bellissima parte finale de L’ultima crociata), alla ricerca spasmodica di oggetti ‘sacri’ dall’inestimabile valore e dall’ineguagliabile potenza, in grado di ampliare gli orizzonti della sapienza umana, di riscrivere il destino dell’umanità tutta.
Nel caso di Necropolis, è assente il tocco umoristico e gustosamente rocambolesco dei lavori spielberghiani. I toni sono dannatamente cupi e seri (ma mai ammorbanti) e si fa largo una cospicua fetta di universo metafisico poco conciliante, in perfetta sintonia col contesto ‘di paura’ in cui la vicenda è calata.
Necropolis gode della rara virtù (per i mockumentary, che solitamente ci mettono un pò ad ingranare) di farsi fin da subito interessante, coinvolgendo a pieno lo spettatore, scongiurandone l’abbandono a metà strada.
Spettatore che proprio comodo e beato in poltrona non se ne sta.
Pare vivere in prima persona la catena di avvenimenti che flagella il gruppetto di esploratori miracolosamente non sprovveduti ma di sicuro impreparati alle molteplici rivelazioni ultraterrene che questa sorta di Ade a testa in giù del nuovo millennio snocciola a ripetizione.
La scelta di girare con camera a mano sposa la volontà di inserire la pellicola nello stile imperante del momento ---il che vuol dire veicolarlo con maggiore facilità verso quei prodotti fruibili dal pubblico che affolla la sala cinematografica--- alla tecnica di ripresa più idonea a raccontare per immagini una storia che si concentra tutta nelle avviluppate viscere della terra, proiezione degli infiniti contorti dedali della psiche, restituendone intatto quel senso di oppressione asfissiante che non molla mai la presa. Contribuisce a rendere alta l’attenzione un ritmo fluido e andante, crescente in intensità man mano che il racconto prende forma per avviarsi all’epilogo, per quanto immaginabile, l’unico possibile.
Godibilissimo.
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