Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film
Il gotico romantico di Crimson Peak non è il gotico orrorifico di Penny Dreadful (2014-in corso). Il taglio naturalistico che la serie di John Logan fa del materiale profilmico è la conferma che lo spirito più propriamente gotico risiede più nella crudezza e nell’oscurità che nel tanto sospirato languore del romanticismo e nella sua decadenza caratterizzante. L’operazione manieristica di Guillermo del Toro, con cui voleva evocare il grande gotico colorato di casa Hammer e di Roger Corman oltre a quello italiano firmato Mario Bava – e omaggiato dal motivo della terza moglie di Milano, tale Enola Sciotti – è un’operazione di tutto rispetto, artigianale e autoriale, ma appesantita dall’estetica contemporanea la cui patina stucca luci, ombre e colori, oltre che omologare la composizione della scena, lo spazio filmico e la grammatica stessa del racconto del terrore.
L’idea è classica e prevedibile, ma fa parte del gioco nostalgico del regista che si ispira a un genere che tra letteratura e cinema ha dato vita a un immaginario regolarmente ripreso e saccheggiato da nuove ondate di mode e tendenze stilistiche. Fanno capolino il tema della perversione sessuale e della scabrosità di tale perversione, la casa infestata, la brughiera, l’interno labirintico, la cripta, l’edificio in rovina, l’arredo decadente, l’isolamento e i temi cari al genere come la morte, la malattia, il male originario e la profezia, la maledizione e l’insalubrità di ambienti e personaggi. Manca però un’articolazione fisica ed audace di questi temi e di questi motivi; tutto sembra invece restare sospeso in una magnificenza dello sguardo, come se l’uniformità patetica dell’estetica e della linguistica di molto horror contemporaneo potesse brillare di autorialità nelle mani del regista giusto, come lo è lo stesso Guillermo del Toro. Invece, il buon messicano ha dimostrato di saper fare di meglio – Cronos (1993), Mimic (1997), El espinazo del diablo (2001), El laberinto del fauno (2006) – così come è indubbio che abbia fatto molto peggio – Pacific Rim (2013).
I fantasmi non bastano a rendere inquietante e perturbante un ambiente che didascalicamente lacrima, sprofonda e sanguina pure, ci voleva un’audacia maggiore, una scabrosità e una voluttà che innervassero personaggi e ambienti, dando “carne” alla fantasmagoria dei temi e dei motivi cari al genere.
Gli attori salvano grandiosamente un film di maniera a tratti soporifero. Su tutti è Jessica Chastain, in un ruolo fortemente voluto, a inebriare di malsanità l’atmosfera, la storia e ogni singolo angolo di questa fatiscente dimora aristocratica. Un villain cinematografico come non se ne vedevano da molto tempo che interiorizza la morbosità del male e dell’ossessione monomaniacale, anch’essa tratto distintivo di un certo immaginario goticheggiante, soprattutto scapigliato. La Wasikowska e Hiddleston sono sorprendentemente perfetti nei panni degli stereotipi letterari reinterpretati su modello preraffaellita; anche se poco credibile l’impenitente uxoricida che di colpo si innamora per davvero, Hiddleston sa sfoggiare il fascino del misterioso sconosciuto divorato da un demone invincibile, mentre la sgraziata australiana centra per l’ennesima volta, con la sua irregolare bellezza, un ruolo e un carattere altrimenti facilmente banalizzabili.
Anche se in ruolo posticcio e di contorno, che ravvede la sua proverbiale natura di bad boy, Charlie Hunnam sa farsi strada con discrezione nei panni poco probabili di un medico gentiluomo che per risolvere il mistero che lo affligge si ispira al “collega” Conan Doyle. Stupisce la credibilità del suo personaggio nonostante l’affettatezza dello stesso in sceneggiatura. Sobrio e misurato, l’attore inglese cambia registro, si fa pudico, non mostra il culo – Hiddlestone sì – e si trasforma nel principe azzurro che non era mai stato, soddisfacendo ogni aspettativa. Non esagera e interpreta stoicamente fino in fondo il proprio personaggio – la scena del triello nel decadente foyer della casa tra lui, la Chastain e Hiddleston è forse il momento più stilisticamente riuscito dell’intero film. Allo stesso modo, Jim Beaver, fin che resta in scena, se li mangia tutti.
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