Regia di Naomi Kawase vedi scheda film
È un film sulla fatica del tenere insieme le cose, Still the Water. Sulla ricerca incessante, sfiancante, di un equilibrio: un racconto di formazione che cerca disperatamente la misura, dentro i suoi protagonisti, con cui sopportare il rapporto tra infinito e dettaglio, tra moto perpetuo del mondo e morte dell’esistente, tra desiderio che slancia e traumi che umiliano, tra sentimenti fortissimi ed eventi che li infragiliscono. E sono questa fatica, l’inquieto muoversi dei personaggi tra il peso del troppo grande e lo schianto sul troppo piccolo, l’infrangersi dello spirito contro le cose, questa domanda che non sa tenere insieme vita e morte, che il cinema contemporaneo continua a raccontare. E maggiore è la naïveté con cui lo fa, la fragilità con cui s’interroga a costo dell’osceno e del ridicolo, maggiore ci pare la sua urgenza. Mia madre, in fondo, non è lontano da The Tree of Life. E così Still the Water, così il cinema di Kawase: lui, lei, due sedicenni ad Amami Oshima, il sesso e l’animismo, una morte certa e una che sta per sopraggiungere, una famiglia unita e una tradita, e lo scorrere sublime, noncurante, della natura. Tutto semplice, elementare, di un simbolismo stucchevole, forse. Ma la macchina da presa gira come se tutto stesse accadendo in quel momento. Come se anch’essa, sempre inerme e sorpresa, dovesse trovare un equilibrio. Un cinema fragile, che cerca la forma, l’esperienza e la grazia, del dubbio. E che ci sembra giusto difendere.
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