Regia di Ricky Tognazzi vedi scheda film
Imprenditore edile dell'hinterland lombardo con problemi di liquidità, viene irretito nella trappola ordita da un viscido capoclan calabrese attivo nel ricliclaggio dei rifiuti tossici e dall'aitante nipote di questi che ne concupisce la figlia. Quando si accorgerà che la 'ndrangheta mira ad acquisire totalmente la sua azienda e la sua stessa vita, prenderà una decisione sofferta ma inevitabile.
Film per la TV prodotto dalla RAI e trasmesso in una sola puntata, segna l'ennesima incursione del regista nell'attualità economica e sociale che ha animato il dibattito politico degli ultimi anni (Ultrà 1993 - La Scorta 1993 - Vite Strozzate 1996) con il piglio didascalico di una drammaturgia che riesce solo a riproporre i soliti stereotipi che sembrano contrapporre buoni e cattivi, meridionali e settentrionali, economia sana e riciclaggio criminale senza l'acutezza di una visione del reale che tenga conto, almeno nella fase della messa in scena, di quella ambigua complessità che anima tutti i processi umani. Se è vero che il cinema di finzione si ancora ai presupposti di un gioco delle parti che alimenta e veicola il meccanismo tragico attraverso l'adesione dei caratteri alla loro natura simbolica, questa rappresentazione edulcorata di uno spaccato della società italiana ne condivide i molteplici difetti con la triste deriva nazional-popolare della serialità televisiva da 'La Piovra' in poi e dove gli ingenui soggetti cinematografici sono solo la cassa di risonanza per un sentimento comune che proprio dall'informazione televisiva trae spunto nella sua analisi semplicistica e fuorviante del marcio che si indova nel tessuto profondo di una cultura della connivenza e dell'opportunismo, dimenticando o facendo finta di non sapere che i fenomeni criminali avvolgono nalla loro indissolubile spirale corrotti e corruttori come parti speculari di di un circolo vizioso che nessuno sembra interessato a spezzare.
Insomma se il film di Tognazzi fallisce per ovvie ragioni di stile e di sostanza sul versante di una di una accettabile rappresentazione cinematografica di un soggetto tragico, quello che più lo rende insopportabile è proprio il messaggio che ci vuole propinare, afferendo ad una realtà sociale in cui i fenomeni corruttivi e le distorsioni del mercato nell'operoso e rispettabile Nord-Ovest abbiano una origine alloctona e non già siano il risultato di una diffusa illegalità all'interno della quale le potenti e ramificate organizzazioni criminali meridionali abbiano da sempre trovato il fertile humus per il loro sviluppo e la loro crescita (il ragioniere di Abatantuono gli appalti li aveva sempre vinti 'gratis', mah?!). L'idea tanto suggestiva quanto irrealistica poi che ci sia una strategia degli affetti dietro cui si possa muovere il pervicace familismo della criminalità calabrese (con un bellimbusto che mira al letto per puntare al portafoglio) è solo il modo di abbozzare un soggetto che si muoverebbe altrimenti stancamente fino all'inevitabile finale, segnato tanto dal riscatto e dalla vittoria della legalità sul malaffare quanto dalla bidimensionalità di personaggi da fotoromanzo animato cui si è da tempo ridotto il cinema italiano. A nulla servono poi le buone caratterizzazioni dell'ex terruncello passato per le sapienti mani di Avati e Salvatores o la credibile fisionomia criminale di consumato teatrante come Antonio Maria Burruano, come pure l'ottima fotografia di Gianni Aldi che descrive una provincia meneghina livida e velenosa che sembra quasi estranea al contesto formale di un contenuto espressivo davvero modesto.
Per chi ha fatto finta di non sapere cosa succedesse quando i giornalisti stazionavano giorno e notte davanti al Palazzo di Giustizia di Milano.
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