Regia di Ricky Tognazzi vedi scheda film
Dunque è così che succede. Nessuno ne parla, ma il problema è ben presente, e si estende sempre di più. La ‘ndrangheta sta mettendo le mani sulle imprese del nord. È molto più potente ed insidiosa della mafia siciliana, perché vanta un’organizzazione che Cosa Nostra neanche si sogna, è coesa come non mai, dato che è tenuta insieme dalla forza dei legami parentali. Ricky Tognazzi la descrive così, nelle parole dell’ispettore al quale è affidata l’indagine intorno al misterioso suicidio di un costruttore. Ora tocca all’amico e concorrente di quest’ultimo, tale Giancarlo Ferraris (Diego Abatantuono), un vedovo sessantenne la cui figlia si è appena laureata in ingegneria. Tutto comincia con un problema di liquidità, che uno sconosciuto avvocato, piombato improvvisamente nell’ufficio del protagonista, si dichiara in grado di risolvere, potendo disporre dei necessari mezzi finanziari ed agganci politici. Il malcapitato, inizialmente diffidente e restio a scendere a patti con quello strano personaggio, finirà di lì a poco per cedere. Ha un urgente bisogno di soldi per salvare l’azienda, e da due mesi non paga gli stipendi ai suoi operai. La trappola, per lui, scatta in un attimo, con quel sì pronunciato malvolentieri, e sotto la spinta dell’emergenza. Il meccanismo sarebbe banale, se non fosse che il famigerato punto del non ritorno si rivelerà come tale solo nel tempo, quando davvero sarà troppo tardi. Ferraris viene trascinato nel gioco sporco con una lenta e viscida gradualità, in un processo di coinvolgimento emotivo e persuasione razionale che i suoi nuovi, subdoli soci sanno mirabilmente gestire sul piano psicologico. La vittima è indifesa soprattutto perché ignara del pericolo insito in quella strana amicizia che gli è stata offerta. Non sa, non vede, e giudica tutto secondo le categorie vigenti in un ambiente in cui, fino a ieri, certi fenomeni non esistevano. La sua ingenuità – forse eccessiva – racchiude il nocciolo della questione: due mondi estranei e molto diversi vengono a contatto, l’uno si fa avanti per divorare l’altro, e questo si fa mangiare senza battere ciglio perché, a causa di un divario linguistico e culturale, non capisce che il comportamento del suo interlocutore è quello che prelude ad un’aggressione. La sociologia, in questo caso, si presenta come etologia del rapporto tra preda e predatore, in un contesto industriale in cui l’economia smette di essere la cornice civile ed eticamente regolamentata entro la quale si svolgono le contrattazioni, per cedere il passo ad un interscambio che si svolge essenzialmente nell’ambito degli affetti e degli istinti, e che risponde alla legge del più furbo e del più forte. Il suo andamento è finemente tratteggiato, in una sceneggiatura ricca di dettagli che contribuiscono in maniera molto efficace a caricare la storia della giusta dose di ambiguità. L’attore Luigi Maria Burruano è nel suo elemento, e si dimostra perfetto nel ruolo del capoclan-burattinaio. Peccato, però, per quel finale didascalico da fiction per famiglie.
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