Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Continua l’esilio dalla “finzione” per Herzog, qui alle prese con un personaggio tra più “herzogiani” raccontati fino a quel momento.
La trama in breve:
Dieter Dingler, nato in Germania durante la seconda guerra mondiale e orfano di un soldato tedesco, si trasferì molto giovane negli Stati Uniti, dove coltivò il sogno che aveva da sempre: pilotare aerei. Prese così parte alla spedizione in Vietnam e là fu fatto prigioniero; per oltre quattro lunghissimi mesi venne torturato e, con un po’ di fortuna e una massiccia dose di coraggio, riuscì infine a fuggire e a farsi trarre in salvo da alcuni suoi commilitoni.
Nel suo esilio dai film di finzione, che continuerà per altri quattro anni, Herzog gira il mondo per filmare e raccontare le sue storie, ma come sempre per riflettere sulle immagini, sul (suo) cinema. In questo modo la “finzione” emerge ancora una volta nei racconti, come ci hanno insegnato i capostipiti del suo cinema documentario, ovvero “Fata Morgana” (1971) e “Paese del silenzio e dell’oscurità” (1971).
In questa vera e propria (ri-)costruzione di una biografia e di una storia, attraverso quattro capitoli (come in “Fata Morgana”), il protagonista ha un sogno come tutti gli eroi “herzogiani”. Dieter Dingler vuole volare e per questo si arruola nell’esercito americano, perché in Germania non potrebbe per le leggi imposte alla nazione dopo la Seconda guerra mondiale. Gli eventi che accadono lo portano vicino alla morte più e più volte, anche dopo la prigionia, anche da civile.
Herzog indaga ancora una volta il cinema dopo il cinema, le immagini irraccontabili e invisibili; cerca di capire come sia possibile che quest’uomo sia vivo; morirà quattro anni dopo le riprese, come ci mostra il post-scriptum montato successivamente alla prima trasmissione tv del film, di ca. 53 minuti, mentre la versione definitiva è di ca. 76 minuti.
Come sintetizza mirabilmente il titolo internazionale, Little Dieter Needs to Fly, il protagonista ha bisogno di volare. Al ritorno dalla prigionia dormirà nella cabina di un caccia perché è lì che si sente al sicuro; ha bisogno di volare come Herzog ha bisogno di raccontare attraverso le immagini. In questo caso ci racconta anche della “necessità” umana di autodistruggersi e allo stesso tempo di salvarsi. Mi spiego meglio…
Nel raccontare quest’uomo, ci mostra come il nonno fosse l’unico del suo paesino a non aver votato per Hitler, diversamente dal padre che ha preso parte alla Seconda guerra, che per altro il protagonista conosce solo attraverso le fotografie, mentre lui si ritrova in Vietnam. Uno dei fili conduttori del cinema del maestro bavarese è il racconto dell’istinto autodistruttivo dell’uomo ma anche della sua necessità di dominare l’altro, e questi aspetti sono importanti e fondamentali anche in questo documentario.
Tornando al Vietnam, nel ricostruire la prigionia del protagonista, Herzog consente alla finzione ed al Cinema di assurgere alla funzione di narratore assoluto nella ricerca di una o più verità del sapere. Nella descrizione dell’uomo che corre legato, con accanto i cittadini del posto che imbracciano fucili, la scena è girata alla stregua di una seduta psicoanalitica filmata. Herzog commenta le immagini e si intervalla al racconto in prima persona, sottolineando che la “Verità” delle immagini può essere capita solo nella sua complessità, solo attraverso il montaggio, che scandaglia i fatti, che li monta e li smonta, moltiplicando i punti di attracco sulla superficie della comprensione. In sostanza torniamo sempre ai cinque minuti iniziali di “Fata Morgana”, alla “creazione” attraverso la scomposizione di immagini di un atterraggio di un aereo di volo…
Altro inserto umoristico e brillante è il video girato dagli americani per mostrare come un soldato può sopravvivere nella giungla, con Herzog che commenta, a suo modo, con tono divertito ma serio le immagini; ancora, poi, le immagini televisive del protagonista che, una volta tornato, parla ai giornalisti.
Le immagini, dunque, si intrecciano e raccontano l’incredibilità di questa storia. Quando però la narrazione prosegue, il racconto si fa sempre più duro e crudo, per le violenze subite dall’aviatore, ma allo stesso tempo c’è spazio per esaminare. Come detto, siamo in una sorta di seduta psicoanalitica filmata, approfondendo le conseguenze di questa prigionia sul protagonista, che in casa si circonda di dipinti che ritraggono porte che si aprono e che conserva sotto la cucina chili e chili di riso.
Eppure non c’è mai retorica nella parole e soprattutto nella immagini. Il film si conclude, almeno nella versione senza il post-scriptum, con immagini paradisiache per il protagonista. Lui è attorniato da un aereo, anzi da migliaia di aerei, il suo sogno è dunque realtà. Il cinema, nella sua essenza, racconta l’uomo ricostruendone la biografia, attraverso le immagini: sogno, realtà, incubi, violenza, desideri, tutto viene condensato nelle immagini, che si accordano splendidamente con i suoni e le musiche (vari sono gli inserti già ascoltati nei precedenti film del regista).
Herzog, ancora una volta fuori dal cinema, racconta attraverso le immagini l’umanità, prendendo come esempio un uomo singolo dalla vita straordinaria; se vogliamo, in quel finale c’è anche un po’ di speranza, se non altro una speranza personale.
Il protagonista è un personaggio che non può che essere catalogato come “herzogiano”; Herzog ovviamente viene attratto da uomini che tendono verso l’infinito, che cercano di superare i propri confini e le loro possibilità. Attraverso il cinema e la forza delle immagini, attraverso la narrazione, racconta ancora una volta gli uomini e il mondo, in una visione ovviamente parziale, ma anche smisurata e terribilmente affascinante.
voto 8,5
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