Regia di Bruce La Bruce vedi scheda film
Nel 2011 il direttore d'orchestra Premil Petrovic propose a Bruce LaBruce di mettere in scena una versione teatrale di Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg (forse la sua composizione più famosa, oltre che indiscusso manifesto “sonoro” dell’espressionismo) con l'attrice Susanne Sachsse quale cantante e interprete del ruolo del titolo.
Adeguatamente supportato da scenari quasi horror e attraversato da un umorismo ironico-satirico perfetto per stemperare un poco i toni cupi della tragedia, un LaBruce in stato di grazia ebbe così l’occasione di dimostrare la sua profonda conoscenza non solo di Schönberg e della sua musica, ma anche del cabaret (soprattutto quello berlinese sviluppatosi fra le due “grandi guerre”) che gli permise di realizzare un magnifico, indimenticabile spettacolo proiettato in una suggestiva dimensione onirica capace di far vibrare le malinconiche note soffuse di decadente nostalgia di una delle più intense partiture dell’intero ‘900[1] e di portarne in assoluto primo piano il senso di colpa, lo spaesamento, l’inquietudine e la paura che trasmette (non sono ovviamente io ad affermarlo, ma i riscontri critici degli addetti ai lavori del settore che quella rappresentazione l’hanno vista tutta e non soltanto gli spezzoni che la rete mi ha permesso di recuperare in video, cospicuamente riproposti anche nel film, sufficienti comunque a farci percepire e comprendere la fondamentale importanza di quella traumatizzante esibizione “dal vivo”).
E’ importante e doveroso fare questa premessa, perché quella rappresentazione particolarmente ispirata, è stata poi la “radice” da cui nel 2013 ha preso forma in LaBruce l’idea di realizzare un nuovo Pierrot Lunaire trasformato per il cinema in una storia dark, ancora e sempre piena di abbandono, amore e trasgressione, divisa per “capitoli” e immersa in un’atmosfera altrettanto sconfortata (quasi disperata) resa ancor più inquietante e misteriosa da un “accecante” bianco e nero molto contrastato (“abbacinante”, si potrebbe definire) e un’illuminazione di stampo espressionista, dall’inusuale utilizzazione del canto che si fa parola, dai versi del poeta simbolista Giraud, altrettanto ‘atonali’ della musica di cui sono complemento, e da un andamento sincopato delle immagini che spesso cede il passo a oniriche sequenze allucinate di castrazioni reali o simulate quasi da Grand Guignol con le sue frequenti sovrapposizioni di immagini e di piani visivi, le riprese deformate e le angolazioni sghembe, che sembrano scaturite proprio dalle suggestioni sonore della partitura e dove non è solo il palcoscenico il luogo di un’azione che qui si espande anche all’esterno, per le “infide” strade periferiche di una Berlino altrettanto suggestiva, senza per questo perdere nulla del senso di claustrofobica oppressione che trasmette.
Il film che ne è venuto fuori (breve, allucinato e barocco), ha ancora come colonna sonora la particolare interpretazione che Petrovic ha dato del melologo di Schönberg, compreso il seducente canto della Sachsse, alla quel resta affidato il ruolo del/della protagonista, straordinario elemento di continuità rispetto alla formidabile esperienza fatta sulle assi del palcoscenico.
Basato su di una storia vera, il Pierrot Lunaire cinematografico di LaBruce è dunque un ironico, satirico “canto visivo” al tempo stesso vizioso, inquietante e malinconico nel suo essere di fatto una versione queercore estrema e radicale di un’opera che, al di là della bellezza delle immagini, fornisce anche (come si è già visto) uno dei contributi più innovativi e sorprendenti alla “esplicitazione visiva” della musica atonale della composizione schoemberghiana: "Mentre ascoltavo la musica di Arnold Schönberg – ha dichiarato il regista - ho cercato di associarvi un concetto che, da un lato si accoppiasse bene con l'umore della musica atonale, e dall'altro lato, potesse essere combinato con le poesie di Albert Giraud in un contesto più contemporaneo. Dalla giungla dei pensieri del mio inconscio è risalita una storia che dovrebbe essere accaduta alcuni decenni fa a Toronto, e che è tanto strana quanto universale (…): una giovane ragazza, che si veste regolarmente da ragazzo, si innamora e seduce un'altra ragazza, che non ha la minima idea che il suo amante abbia il suo stesso sesso. Quando la ragazza presenta "il suo fidanzato" a suo padre, questi diventa sospettoso e smaschera la frode e non permette loro di rivedersi mai più. Furioso e delirante il "ragazzo" progetta un piano avventuroso per dimostrare la sua "mascolinità" al padre della sua “amante”.
Il dramma che ne consegue già di per sé abbastanza sconvolgente, è questa volta persino sorprendente (addirittura spiazzante in alcuni movimenti) poiché ci fa conoscere un abbastanza inedito LaBruce (comunque ancora e sempre profondamente fedele alla sua linea) che ha avuto l’intelligenza di adeguare il suo stile a una forma altrettanto provocatoria ma in apparenza più mediata del suo solito (solo meno “spudorata” mi verrebbe da osservare), perfetta per dare vita a questa connessione musical/poetica che potrebbe persino lasciare un tantino interdetti i suoi fans più ortodossi e dove l’androgino, triste e solitario Pierrot è magistralmente “disegnato” con una totalizzante immedesimazione fisica (le smorfie, le movenze, l’atteggiamento mascolino della sua figura) ed emotiva (le allucinazioni, il grottesco disvelatore di uno status che tiene sottochiave una femminilità pervicacemente avversata e quasi annullata) da una Susanne Sachsse, in grado di rendere assolutamente credibile il suo essere un “uomo senza fallo” (e come tale un’anima maschile richiusa dentro un corpo che non la rappresenta) vero e proprio paradigma di quella “speciale” ambiguità che la porta a innamorarsi e voler “possedere” costi quel che costi, la sua ignara Columbine.
Ci sono anche qui giaculatorie, dildo e membri in erezione (compresa conseguente abbondante eiaculazione); corpi scultorei (tutti al maschile) in frequenti esibizioni di potenza o con gli attributi penzolanti, stancamente maneggiati e quasi inerti ma osservati sempre come oscuri oggetti di un (im)possibile desiderio, ma ci sono anche molti interessanti “debiti ispirativi” (riconosciuti e dichiarati) proprio verso la feconda stagione del Grand Guignol (che già a mio avviso aveva influenzato in qualche modo pure la musica) che come ben sappiamo è stato un popolarissimo movimento teatrale attivo a Parigi tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, che rappresentava altrettante storie piene di sangue, violenza e amputazioni. C’è soprattutto la bravura di un regista che, se da una parte ci fornisce un’ulteriore strabiliante prova della sua visionarietà, dall’altra ci dimostra una raggiunta maturità stilistica che gli consente di padroneggiare (e piegare ai suoi voleri) gli stilemi dei più diversi generi cinematografici amalgamandoli fra l’oro in un unicum di rara efficacia: se nella prima parte i suoi preziosi contributi “omaggio” vanno nella direzione dei vecchi film del muto, del cinema espressionista tedesco, del surrealismo, dei fermenti anche teatrali sviluppatisi durante la Repubblica di Weimar, nella seconda invece il pedale si indirizza più temerariamente anche in altre direzioni come la video-arte americana degli anni ’70, per chiudere poi il cerchio proponendo persino spregiudicate, grottesche scene ambientate ai giorni nostri, con le sue fuggevoli incursioni –deviazioni che lo spingono persino verso la musica techno che in apparenza avrebbe poco da spartire con Schönberg ma che invece vi si mischia con perfetta adesione anche emozionale.
Così, che proprio la macabra, surreale scena della ghigliottina (che non taglia ovviamente il capo, ma ben altra testa, come si può facilmente immaginare) diventa una sequenza dove l’evirazione è ironicamente associata all’impotenza (che non è mai solo e soltanto sessuale) attraverso la quale LaBruce riesce a trasmetterci tutta la dolcezza e la sofferenza di uno stare al mondo in cui facciamo fatica a ritrovare noi stessi, e l´essenza che incarniamo (Maria Cera).
Una non storia dentro una storia, insomma dove il queer Pierrot che il regista rappresenta sullo schermo, finisce (a suo modo ovviamente) per incarnare (estendendo il concetto) anche la più generale perdita di identità che caratterizza l’epoca che stiamo vivendo e dove le regole ormai da tempo consolidate, non sono più sufficienti a contenere l’angoscia (nel senso che fanno ormai molta fatica a darci sicurezza e appagamento, e non parlo ovviamente soltanto sul versante del sesso).
Sarà così proprio nei locali a luci rosse dove maschi improbabili si esibiscono in una lasciva e un po’ ridicola lap dance che l’innamorato transgender matura il suo piano: evirare per possedere alfine ciò che gli manca, l’unica cosa che può dargli un’identità, comunque posticcia e inutilizzabile, ma liberatoria, quasi santificatrice.
L’inganno e la possibile vaneggiante soluzione adottata non faranno comunque di Pierrot un vero uomo: scoperto e messo in mora dal padre (capitalista) della falsa innocente Columbine, costituiranno invece ulteriori elementi destabilizzanti che finiranno per gettarlo in una silenziosa, ancor più profonda (e insanabile) disperazione.
Sospeso fra il linguaggio artistico di un cinema autoriale e senza troppi fronzoli aggiuntivi e quella che si potrebbe definire (semplificando di molto il concetto) “pornografia gay”, utilizzando tecniche già consolidate e una buona dose di sperimentazione anche linguistica, LaBruce, ha dunque fatto nuovamente centro e la cosa è particolarmente meritoria anche se non credo che il film potrà purtroppo contare su una distribuzione capillare che nemmeno questa volta gli permetteranno di confrontarsi con un pubblico più vasto e trasversale..
Il film ha comunque vinto il Premio della Giuria al Teddy Award 2014 con la seguente motivazione: "(…) Fondendo la teatralità con un linguaggio cinematografico tagliente e coniugando il tutto con la straordinaria prestazione di Susanne Sachsse e un sofisticato uso della musica, Bruce LaBruce ricombina questi elementi in maniera eccellente rinnovando l'avanguardia classica fornendo così un ulteriore, significativo tassello di un lavoro complessivo e in progress, che procede ancora e sempre nell'esplorazione della nozione di 'Queer' in tutti i suoi significati".
[1] Il “melologo” Pierrot Lunaire op. 21 per voce recitante e 5 strumenti, basato su un ciclo di lieder facenti parte di una raccolta di 50 poesie del belga Albert Giraud nella traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben (per chi volesse leggerne il testo, proposto in originale e nella traduzione italiana di Beniamino Fava, può digitare il link http://www.dicoseunpo.it/S_files/Pierrot_Lunaire.pdf ) fu composto da Schönberg nel 1912 e fu eseguito per la prima volta a Berlino il 16 ottobre dello stesso anno sconvolgendo da subito la scena musicale (anche d’avanguardia) del periodo. Una composizione che si caratterizza per lo “Sprechgesang” (canto parlato) e si configura fra i più arditi e riusciti risultati del compositore nella sua fase artistica definita “atonale” (negazione della tonalità). Insieme ad altre partiture scritte a partire dal 1908, rappresenta infatti per Schönberg l’abdicazione (sofferta e consapevole) alle convenzioni del linguaggio armonico tonale sentito ormai, da lui considerato inattuale, di maniera, e ormai privo di quell’autenticità espressiva necessaria per raccontare un periodo di profondi cambiamenti come quello che precede la guerra del 1915-1918.
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