Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
«Questo documentario sarebbe stato bello non averlo fatto; cioè, non aver avuto la necessità di farlo. Sogno un mondo dove Felice chi è diverso non esiste». Sono affermazioni di Gianni Amelio sulla sua ultima opera, presentata alla Berlinale 2014 nella sezione Panorama Dokumente prima di approdare sui nostri schermi; affermazioni in cui la parola chiave è «necessità». I versi di Sandro Penna che danno il titolo al film («Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune») mettono in campo la felicità della differenza, ma il bel documentario dell’intrepido Amelio raccoglie, con levità sorprendente, soprattutto storie segnate dal dolore. Dolore fisico e dell’anima, ferite e lividi in superficie o in profondità, inferti nel corso di oltre mezzo secolo all’identità degli omosessuali italiani. All’identità, prima ancora che ai diritti o alla legittimità dell’amore gay: nell’arco di tempo coperto dalle testimonianze degli intervistati, dalla dittatura fascista fino all’oggi di un adolescente bergamasco, la violenza che entra in scena è principalmente quella istituzionale e socialmente accettabile dei media, la pervasività di una rappresentazione che costantemente riduce la diversità a macchietta, ad anomalia folcloristica, a stereotipo per gag televisivi. Un’identità fagocitata da stampa e tv, rimasticata per essere digeribile ai “non invertiti” sotto forma di bizzarria risibile. Possono far sorridere amaro gli inserti di cinegiornali e testate d’epoca, con il loro politicamente scorretto sbattuto in prima pagina senza remore: ma non dovrebbe sfuggire la violenza più subdola dell’ipocrisia dei decenni a seguire. In Felice chi è diverso si parla anche di felicità, e la sua forza è proprio nello scansare ostinatamente un ritratto vittimista e forzatamente “di denuncia” rispetto allo stato delle cose in Italia dagli anni 40 a oggi: sono storie personali, prima di tutto, a emergere dallo sfondo, vicende individuali, ognuna dall’altra diversa, appunto. Che si tratti della pagina dedicata a Pier Paolo Pasolini, con Ninetto Davoli davanti all’obiettivo, o del racconto della quotidianità di una coppia che ha condiviso una vita intera, o ancora del lancinante resoconto dell’esistenza segnata da desiderio e perdita di una transessuale, ogni singola vicenda attraversa lo schermo per riconquistare una dignità ora negata, ora semplicemente ignorata. Raccontarle è necessario, ascoltarle lo è altrettanto: l’urgenza che Amelio riconosce nell’opera, quella che vorrebbe non dovesse (più) esistere, è la sua dolorosa ragione d’essere.
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