Regia di Josephine Decker vedi scheda film
L’amore può essere una poesia selvaggia. Una mania bestiale e dolcissima, che inonda il pensiero straziando i corpi. Una fattoria della provincia americana può diventare il teatro di una tragedia primitiva e romantica, brutale come l’istinto, folle ed assoluta come la passione. L’isolamento è la condizione naturale in cui coltivare le punte estreme dell’essere, lasciandosi travolgere dalle contraddizioni, rapire dall’assurdo. Sarah ha un padre amante. E tanti fantasmi amanti, che vanno e vengono, o forse non sono mai venuti, né se ne sono mai andati. In qualche modo sono sempre stati lì, invisibili e bellissimi, desiderabili ed irraggiungibili. Così deve essere anche il giovane Akin, appena arrivato per prendere servizio come aiutante. È certo una presenza ambigua, che ha capito di essere in un luogo fuori dal mondo, dove la realtà è un gioco che si può inventare in tutta libertà. Si può, ad esempio, fingere di non avere alle spalle una storia. Di non essere sposati, di non avere figli, di avere tutta la vita davanti e di poter dunque cominciare dall’inizio, senza pregiudizi, senza condizionamenti, senza vincoli di alcun genere. Sarah è la cacciatrice, lui la preda. In mezzo al nulla, è meraviglioso persino scherzare con la morte, come con il pupazzo di una gallina decapitata. Il sangue è il segno dei legami che ci si diverte a mettere alla prova, per renderli ancora più intensi, ancora più violenti. La carne viva parla dell’amore che fa perdere la testa, che parte per la tangente, che finisce per sbattere contro il muro della crudeltà senza ritorno. Questo racconto narra di un’anima che vola, nell’eterea dimensione del sogno, e quindi si posa sulla realtà solo per farsi volgare, squallida, bassamente vorace. Nasce divina e diventa diabolica. Il suo volteggio segue la traiettoria ondeggiante del tormento umano, della cecità di chi non trova e si dispera, di chi chiude gli occhi e si illude di vedere. Sarah è una donna che è cresciuta fuori dal normale tracciato dell’esistenza, lontana dalla società, in una solitudine che l’ha costretta a mettere radici in una terra arida, fra i sassi dell’ignoranza e dall’egoismo. Per il vecchio Jeremiah lei è tutto, una proprietà su cui ha l’esclusiva, una suddita che non conosce altro sovrano. Solo la sua mente, nel silenzio, si figura altri re, non meno potenti, non meno cinici. Immagina di poter moltiplicare all’infinito quell’appartenenza totale, per potervi mille volte porre fine, scappando verso una nuova terribile avventura. Il film di Josephine Decker declina quella giostra infernale in un canto dalla melodia tanto rozza quanto struggente, come una danza funebre eseguita in punta di piedi. La spirale micidiale è introdotta da una musica suadente e genuina, quella che potrebbe accompagnare lo spuntare delle erbe spontanee, o i passi incerti di una creatura randagia. Intanto il tempo si lascia cullare da quell’attesa vuota di ragione, ma piena di segreti acerbi, fra gli animali selvatici che si lasciano braccare dal destino, e tenere in ostaggio dalla voglia di essere dei.
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