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Butter on the Latch

Regia di Josephine Decker vedi scheda film

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La recensione su Butter on the Latch

di mck
7 stelle

Scatta il chiavistello. Qualcosa si apre. Qualcosa ne esce.

 

Bignami di sinossi: nella foresta di Mendocino, nel nord della California, si sta svolgendo un folk-festival balcanico.
Ok, e questi sono i motivi per i quali il film potrebbe anche non rientrare tra i primissimi posti nella lista delle opere cui dover assolutamente assistere.

 


Superato lo shock iniziale, però, c'è l'opera in questione... ed ecco la seconda batosta: “Butter on the Latch”, esordio alla regìa nel lungometraggio di finzione per Josephin Decker (cui seguiranno “Thou Wast Mild and Lovely”, “Madeline's Madeline” e l'imminente “Shirley”, oltre all'home-movie quinquennale “Flames”, un auto-documentario girato nel corso di un lustro d'amore e non-amore con l'ex-compagno Zefrey Throwell), da lei - che ha dalla sua la consapevolezza che 70' sono la giusta distanza - come sempre anche scritto e montato, mentre la fotografia è della sodale Ashley Connor, è un dramma sperimentale sulla perdita di baricentro letterario e tecnico-scientifico, uno psico-thriller misterico-sentimentale (non) basato s'una (non) sceneggiatura che prende forma durante le riprese (e a tratti nemmeno a lavoro terminato) e governato da una macchina da presa a mano scientemente maneggiata senz'alcuna perizia manuale: c'è il cavalletto a testa fissa e giroscopica, c'è il carrello e il dolly, c'è la steady-cam, c'è la camera a spalla e a mano, c'è l'effetto ripresa amatoriale... e poi c'è... questo: attenzione, però: è un effetto cercato e voluto, solamente... non pienamente riuscito, ecco: specialmente durante le silvicole camminate crepuscolari, da una parte il realismo del PdV soggettivo (biologica stereoscopia della visione umana, non protesiche handy-cam o smartphone) non è sufficientemente... realistico, e dall'altra alla composizione del quadro sfugge ogni struttura e prospettiva - anche caotica - geometrica, e quel che resta è un filmato raw (crudo e grezzo), senza alcun intervento di uno sguardo sintattico-grammaticale superiore: ripeto, tutto voluto, ma poco riuscito: non intende essere, o meglio, non cerca ciò che ricerca (attenzione: di seguito è in corso la messa in atto di una "reductio ad...") Kubrick inscenando la sacra combriccola barrylyndoniana (Gainsborough, Watteau, Hogarth, Constable, Reynolds, Fussly, Zoffany, Stubbs...), ma nemmeno raggiunge la perdita consapevole dell'equilibrio come, da una parte, matematica e quindi geometrica, Pollock e Mirò, e dall'altra, psicomoderna e umanist(ic)a, Bacon: è più una questione di editing che di cameraman (Ryan Stephen Phillips), e infatti è anche il montaggio a riscattare gran parte del resto dell'opera grazie ad allucina(n)ti flash-frame analettici e prolettici, assieme ai bravi attori professionisti e al buon utilizzo di quelli non professionisti (Sarah Small, Isolde Chae-Lawrence - poi al fianco della regista, entrambe nel ruolo di attrici, in "Sisters of the Plague" - e Charlie Hewson).

 


Gli anglosassoni mettono il burro sulle cerniere e nelle serrature delle porte perché, sfigatoni, a quelle latitudini non c'hanno l'olio. I californiani ce l'hanno, ma oramai il linguaggio si è sedimentato. Il chiavistello (o il grilletto, sottile metafora sessuale), comunque, ingrana e gira, e ugualmente fa click, e un fiume, o una colomba o un cane, o persino un essere umano, scattano... e s'inceppano, ingrippano, deragliano, e, circondati dalle limbiche evasioni dalla realtà di “Leones” e “Mesa sto Dasos” e dai corpi immersi nella natura di Ben Rivers & Ben Russell, di Alistair Banks Griffin e di Philippe Grandieux, raggiungono la Zona in cui abitano e si muovono le similari esperienze vissute dalle protagoniste dei classici moderni “3 Women” e “Images” e dei contemporanei “Queen of Earth” e “WoodShock” (e in minor modo le derive in fuga di “River of Grass” e “Sun Don’t Shine”, e financo quelle più pop come nel caso di “Ingrid Goes West”), generando una prima riflessione sulle pulsioni, le condizioni, le alterazioni, i conflitti e la gestione dell’esperienza che avranno già nell’opera immediatamente successiva di Josephin Decker, la già citata “Thou Wast Mild and Lovely”, un’epifanica catarsi che dal mumblecore porta al mumble...gore.

 

* * * ½ (¾)   

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