Regia di Alonso Ruizpalacios vedi scheda film
A Città del Messico la rivoluzione non è mai finita. Ha cambiato forma, ma è sempre lei. Sempre caotica e incerta. Sempre vana. Sempre traboccante di poesia.
Ombrosa e sfilacciata. È la nuova Città del Messico. Pullulante, in segreto, degli inquieti brandelli di una rivoluzione che non vuole finire, per poter aspirare a vivere per sempre. L’università è il bivacco di questa approssimativa ansia di eternità. I suoi studenti guardano lontano, ma con occhi stralunati. La giungla, intorno a loro, appare stranamente rarefatta, come per lasciare spazio alle illusioni di un domani che non deve arrivare, per poter continuare a crederci. Questo film coltiva amorosamente il registro autoriale per proporci un ritratto d’ambiente artisticamente disgiunto dal canone dell’”impegno”, eppure avvinghiato alla realtà con la passione impulsiva di chi non molla, anche di fronte alla noia, all’incoerenza, al senso di disfatta che affliggono la volontà di cambiare. I giovani protagonisti di questa storia attraversano i giorni a cavallo di un’inerzia che è una forma ribelle di fiducia nel futuro, un’attesa da respirare fino in fondo, anche a costo di ritardare il presente, sostituendolo con un passato ormai inafferrabile. Il loro compagno di viaggio è una vecchia musicassetta, chiusa dentro una custodia graffiata, con incise le note di un cantante che si è ritirato, anzi è scomparso. Epigmenio Cruz è il suo singolare nome, lo zoo la sua inusuale collocazione professionale, un bar il luogo che frequenta per dimenticarsi di ciò che è, e magari mettersi a dormire davanti a un bicchiere di succo di frutta. Andare a caccia del suo autografo è come inseguire un fantasma che delude le aspettative, ma non può essere ignorato. È il treno che arriva e riparte solo per essere osservato dal poeta, rimasto fermo sul marciapiede della stazione. È il mondo che passa, lasciando tutto come prima, tranne per chi, per un istante, ha fotografato con la mente le ventose spire del suo fuggire via, privo di senso, ma carico di bellezza interiore. Si può dipingere l’amarezza anche senza tracciare i soliti contorni del degrado. Il paesaggio può restare morbido, sullo sfondo, come uno schermo grigio che incornicia i volti senza aggredirli, accogliendoli, invece, come vibrazioni della grande anima del vuoto. Intorno ai personaggi la vita è pulsante, a volte con fare sinuoso, come in una vasca in cui nuotano le foche, altre volte in maniera più sgraziata, come nella rumoreggiante e affollata aula di un’assemblea, ma è sempre rispettosamente distante dal cuore di chi combatte, spera, e intanto cerca. Scioperare, protestare, essere contro, è infatti l’atteggiamento di chi si chiama fuori dalla sostanza del reale, dai profili delle case, dalle file delle auto, dai riti di una festa, per riempire l’aria di una presenza estranea, intrusa, sgradita, dissonante, che parla con la voce di una radio clandestina, con una melodia di altri tempi, attraverso un cavo che ruba la corrente, lungo il filo di un telefono che racconta una visione. Una tigre, spaventosa e immaginaria, domina le emozioni di Sombra come uno splendido incubo. La gigantesca figura di un mural mentale strappato ad una pagina di diario, una di quelle che Epigmenio ha riempito di allucinati ghirigori. La diversità si fa nonsense creativo, un turbine isolato ansioso di trovare l’ondata di piena in cui confluire e confondersi. Questo film segue pazientemente il suo errare, disordinato eppure attento ad ogni singolo passo. La sua trama piena di buchi e garbugli non ha forma, ma è tessuta con cura, tra i precisi ricami della debolezza e inconcludenza di chi non capisce, però va avanti, certo di avere comunque ragione.
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