Regia di Bas Devos vedi scheda film
Un omicidio, un assassino, un morto, un testimone. E uno sguardo condannato all'impurità o all'impossibile ricerca del suo essere stato innocente.
Stasi della volontà, di una coscienza e di un film. Tutto è fermo, tutto riposa in improvvise esplosioni iridate, in sguardi di non complicità e impossibili afrori, in macchine da presa che non fanno altro che registrare, asintomaticamente, l’imprecisabilità di un lutto e di un dolore. Il MacGuffin è un omicidio, un ragazzo che cade, fermo e eterno nella registrazione di videocamere distratte (anche esse imbrigliate in una immobilità pressochè ontologica). Al contrario di quanto accadeva nella sintassi hitchcockiana, in Violet l’espediente narrativo non solo permea le (non) azioni dei protagonisti, non solo si fa filo rosso di una vicenda da ultima pagina di giornale fiammingo, in realtà scava leggermente nell’animo e nella mente dello spettatore, conferendo luce riflessa e vagamente angosciosa ad una storia per altri versi insostenibile, e ad un racconto della stessa totalmente autistico, teso com’è ad un’ansia di registrazione di spazi invasi da un silenzio che si fa immagine, visivamente accecante e probabilmente nata morta, insensata, vacua, anche intollerabile.
L’occhio che registra (cfr, mutatis mutandis, Cortazar, Antonioni, Blow Up) in un attimo di inconsapevole fugacità è organo che si autoreclude nel ricordo del frammento danzante in eterno. Occhio che invade di sé la psiche, ovattandola nel niente, occhio che collabora con la bocca in un mutismo che è angoscia rattrappita. Ogni tentativo di fuga fa i conti con un passato che è durato un attimo, quell’attimo che si cristallizzerà per sempre nella sua funzione tristemente evolutiva: la scoperta del dolore dell’altro che, fatalmente, diventa dolore di sé e del proprio essere (stato) compartecipe oculare. Non servono gli spazi sconfinati, fitti di un verde che non consola e non dà speranza, non conta lo sport inseguito e praticato con rabbiosa indifferenza (i lunghi giri in bici, una spolveratina non sgradevole di Vas Sant, in un ambiente circostante che sembra fatto della dura pietra dell’indifferenza). Una foto può riportare in emersione la sofferenza, le domande degli altri e l’altrui attesa di un’ improbabile risposta, il sangue lavato e quello rammentato. Percorsi di crescita segnati, per sempre, dall’impossibile tentativo di un rewind, solitarie divagazioni che il film squaderna, con forza anche fastidiosa, a ricordare che, sì, siamo ciò che siamo, ciò che facciamo e, soprattutto, ciò che guardiamo.
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