Regia di Emanuele Caruso vedi scheda film
Il cinema indipendente viene dal mondo. Anche da quel disordinato, svogliato andirivieni che è la vita marginale, quella delle comunità chiuse, remote, in ritardo sui tempi. Andare contro corrente significa anche stare fermi sulla propria mediocrità, sul culto di miti stantii, sulle sensazioni un po’ false rubate alle favole televisive del momento. Gli abitanti del paese di montagna accolgono una troupe di giovani cineasti, venuta a filmare la loro recitazione impacciata, maldestramente teatrale, incredula di tanto inatteso protagonismo. La cosiddetta gente comune resta piccola, anche di fronte agli eventi importanti, come l’occasione di comparire sul grande schermo, di essere attori, di vedere il proprio nome sfilare nei titoli di coda. Ognuno interpreta una versione di sé pittorescamente compiaciuta, rivelando la propria narcisistica passione per la propria ordinaria irripetibilità. Nascono così tanti anonimi personaggi veri, che, facendo da contorno alla storia, ne riempiono con niente l’irrimediabile, romantica convenzionalità di sogno popolare. Un nulla si gonfia della propria colorita inconsistenza, non appena accade qualcosa di grande e sconvolgente; la possibilità di diventare famoso, o l’arrivo dell’apocalisse. È assurdo pensare che un avvenimento possa scegliersi gli spettatori e i partecipanti che siano alla sua portata, scartando quelli incapaci di fornire una risposta all’altezza delle circostanze. La fine del mondo interessa tutti, non solo gli eroi romantici, i geni decadenti, gli artisti inquieti. Lì in mezzo ci sono le persone qualunque, con le loro vicissitudini quotidiane, che, per l’occasione possono, tutt’al più, ingenuamente aspirare a diventare spunti per melodrammatiche infatuazioni nei confronti del proprio destino, per una religiosa venerazione delle proprie disgrazie. Il gusto di filosofeggiare e sospirare intorno ai propri casi è indossato come il marchio distintivo di chi si sente in grado di recepire i messaggi rivelatori nascosti dietro le sventure senza un perché. Il prete, il sindaco, la maestra, il giovane inconsolabile, la ragazza addolorata sono le figure che, per la loro attitudine all’astrazione, si distinguono dalla massa, da chi preferisce (s)parlare degli altri piuttosto che meditare su di sé. La loro virtù è saper caricare le proprie vicende di un senso, non necessariamente dotato di profondità morale, ma certamente tale da attirare l’attenzione ed imprimersi nella memoria. Anche il matto del villaggio, con il suo conto alla rovescia tracciato col carbone su un muro, dà il suo contributo a questa mistificazione della sventura: una trasfigurazione lirica che nasce dalla tristezza della normalità per fiorire nella plateale messinscena della tragedia che prende coscienza di sé, e vuole lasciare ovunque i segni del proprio passaggio. È la caricatura della sofferenza del cuore, che non si arrende alla propria invisibilità, e si affanna a diventare romanzo. È uno spettacolo penoso, che può dare fastidio, che può sembrare supponente. Ma è un fenomeno naturale. Ed è forse questo l’oggetto del curioso esperimento sociale che il regista esordiente Emanuele Caruso pone alla base della sua opera. Immaginare l’effetto che fa, quando si sa bene che questo effetto non sarà di sicuro un granché. E, allo stesso tempo, farci capire come gli umili artefici di questo prevedibile fiasco, nonostante tutto, credano davvero in quello che fanno.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta