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Fuochi d'artificio in pieno giorno

Regia di Yi'nan Diao vedi scheda film

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La recensione su Fuochi d'artificio in pieno giorno

di laulilla
8 stelle

L’Orso d’oro al film e l’Orso d’argento al suo protagonista Liao Fan suggellavano, alla Berlinale del 2014, la qualità di questo terzo lungometraggio del regista cinese Yinan Diao, mentre l’Asian Film Awards del 2015 aggiungeva anche il proprio riconoscimento all’attore Liao Fan e alla sceneggiatura scritta dallo stesso regista.

 

 Il giovane regista che, senza ignorare l’ironia di Hitchcock e dei Coen, mostra di aver appieno assimilato la tecnica narrativa dei più famosi noir americani degli anni ’40, talvolta anche apertamente citati, racconta una vicenda che si svolge in due momenti separati ma collegati fra loro ovvero nel 1999 e nel 2004.


1999

Nell’estremo nord-est della Cina, in una cava carbonifera della Manciuria, ha inizio la storia da cui il film prende le mosse: erano stati trovati, forse per caso, alcuni resti umani insanguinati, frammisti al carbone appena scaricato dal vagone di un treno. Una rapida indagine aveva permesso di accertare che altri brandelli erano stati disseminati lungo un percorso molto ampio e irregolare, con l’evidente intento di far perdere le tracce di un delitto efferato e di difficile ricostruzione.

Un intelligente poliziotto, l’ispettore Zhang Zili, tuttavia, aveva messo le mani su una coppia di giovanotti sospetti e, probabilmente, in qualche modo implicati nell’oscura vicenda, uscendone con le ossa rotte: in un imprevedibile scontro a fuoco era stato gravemente ferito, mentre i due colleghi che lo avevano affiancato nell’operazione di arresto degli indiziati erano stati uccisi.


2004

Quando Zhang era ormai tornato alla vita, dopo la lunghissima convalescenza, tutto in Cina era profondamente cambiato, a cominciare da lui, che aveva dovuto licenziarsi dalla polizia ed era diventato un detective privato, ora dedito smodatamente al bere, cosicché era accaduto che, nella sua nevosa Manciuria, un uomo lo avesse scorto mentre, ubriaco, dormiva sul bordo di una strada ghiacciata e lo avesse “soccorso”, derubandolo poi della bella moto parcheggiata accanto a lui: episodio quasi emblematico della deriva che l’intera Cina si accingeva a percorrere, nella corsa sfrenata all’arricchimento individuale, e nell’oblio di ogni forma di solidarietà sociale.


L’incontro con alcuni vecchi colleghi della polizia di stato aveva indotto Zhang, però, a occuparsi ancora di quell’antico e mai risolto omicidio, che era diventato, almeno all’apparenza, il primo di una lunga serie di delitti simili, tutti misteriosamente legati a una giovane donna graziosa, la vedova dell’assassinato del treno: Wu Zhizhen (Lun Mei Gwei). Wu è timida, malinconica, dai modi gentili e riservati; fa la commessa in un negozio di lavanderia in una cittadina non lontana dal percorso dei treni che trasportano il carbone.

 

 

 

 

La vicenda si sviluppa in un groviglio di contraddizioni che risulta difficile da dipanare: nel caos apparentemente insensato verità e menzogna si equivalgono, come nella realtà della nuova Cina il comunismo di facciata che ha "sdoganato"  i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, si mescola inestricabilmente agli aspetti crudeli e sordidi dello sfruttamento, della mercificazione del corpo femminile, dell’arricchimento illegale, nonché dell’indifferenza morale, potente anestetico al dolore e alla sofferenza altrui e anche propria. 

Non rivelerò altro del film: è un noir ben congegnato ed è giusto che rimanga avvolto nel mistero, proprio come Wu, la bella e ambigua protagonista che, com’è ovvio, farà perdere la testa a Zhang.


D’altra parte il film, pur con tutti i richiami e le citazioni di cui ho parlato, a cui potrei aggiungere anche quelli della letteratura gialla, da Chandler a Simenon, è di sorprendente e insolita bellezza, non tanto per l’originalità del racconto, che rimane un racconto di genere, sia pure Made in China, quanto per la straordinaria cura della sua realizzazione.

 

Ciò che maggiormente colpisce, infatti, è l’eleganza delle sue immagini: quelle degli interni, dai colori laccati e sfavillanti, che sembrano appartenere alla sensualità di certo cinema cinese tradizionale, ma anche quelle molto insolite e originali del gelido inverno locale in cui vengono meno i toni più accesi, e in cui i colori della tavolozza del regista sembrano ridursi a cogliere le infinite sfumature dei neri (il carbone) e dei bianchi diafani del ghiaccio sottile, che imprimono al film la loro nota dominante, metafora del progressivo raggelarsi dei rapporti sociali all’interno del paese che sta perdendo le sue peculiarità e che diventa sempre più simile al mondo occidentale, difetti compresi (come ci racconta anche l’altra coeva pellicola cinese: Il tocco del peccato).

Nessuna meraviglia, perciò, se la provincia cinese narrata da Yinan Diao è solo apparentemente sonnolenta, percorsa com’è da tensioni e inquietudini che ci sembrano familiari: nel mondo globalizzato il processo di omologazione sta investendo ogni angolo del pianeta, cosicché la Cina, nel bene e nel male, è vicina davvero.

 

 

 

 

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