La recensione su Fuochi d'artificio in pieno giorno

Berlino compete con Venezia per il “vero” festival d’essai. Che per capirsi, per molti è dato da un festival con una serie di film che non interessano nessuno (o pochi) e che non sempre, in cambio, hanno tutta questa grande qualità. Non siamo a definizioni fantozziane, ma si rischia di avvicinarsi.

Berlino e Venezia sono finiti in questo cortocircuito: i film che vincono non interessano a nessuno, e a nessuno interessa vedere il film che ha vinto Venezia, o Berlino, qualunque esso sia.

Anche Cannes è in questa situazione, ma meno (meno ancora, l’Oscar al miglior film straniero). Questo è nei fatti: se prendiamo i voti ricevuti dai film vincenti, su IMDB (ma possiamo probabilmente scegliere anche altri siti), si vede che siamo nell’ordine della miseria, dove raramente si arriva a 10 mila voti (con eccezioni, chiaro) per l’Orso o il Leone d’oro.

Già solo con un excursus negli ultimi dieci anni, si trovano molti film vincenti semi invisibili, che neanche arrivano a due – tre mila voti, e alcuni non superano i mille. E dunque? E dunque c’è qualcosa che non va: uno, non va che vengano premiati film solo normali, o solo carucci o carini …che le giurie abbiano il coraggio di dire No award, nessuno vince, nessuno merita. Due. Non va bene che se allora vinceranno i classici filmoni (se ci saranno), la gente non abbia voglia di andare a vederli. Questa voglia sarebbe da fargliela venire.

Tutto sto pippotto per tornare al film in questione, Orso d’oro a Berlino. Il film è piacevole, siamo in Cina, nella Cina urbana che senza volerlo assomiglia ai bassifondi di Blade runner; non si fa neanche più caso insomma alle strutture fatiscenti, ai tubi in vista dentro gli appartamenti, a muri scrostati, strade rovinate, posti orrendi esteticamente, gente vinta dalla vita, etc…

In questo habitat maturano degli omicidi senza colpevole, e starà al poliziotto protagonista provare a venirne a capo. Una specie di thriller poliziesco che si segue molto volentieri, malgrado sia molto sui generis, e in alcuni momenti, fuori tempo massimo. Ad esempio, quando il nostro protagonista balla da solo (fuori dal contesto del film, se vogliamo), il tutto è simpatico, ma ormai in occidente si è visto più volte, e anche in oriente, direi, ricordo per dire il bellissimo balletto nel film di Takeshi Kitano Zatoichi, un po’ insensato e geniale, ma ce ne sarebbero no? Vedi il ballo di Travolta, ballo ormai iconico, che si autocita in Pulp fiction.

Il ballo non è l’unica scena in cui il regista sembra dire “provo a fare un po’ il fico, con questa idea, guarda come è venuta!”, ma anche se viene benino, si pecca sempre di originalità. Tranne nel finale, con i fuochi d’artificio in pieno giorno, scena sì che ho trovato geniale, che richiama il titolo del film (una volta tanto, tradotto fedelmente dall’originale, non come il titolo internazionale che invece c’entra poco), titolo che a sua volta deriva dal nome di un locale dove il poliziotto indagherà e da dove in pratica parte tutta la storia.

Ok, al dunque io sono per un 7, al massimo per un 7,5, il film vale, ma vale un Orso d’oro? Mah. Alla critica è piaciuto, al pubblico, almeno vedendo i neanche cinquemila votanti su IMDB, molto meno. Se però uno fa appena mente locale e ricorda che quell’anno (2014) c’erano in gara Boyhood (che non ho visto), In ordine di sparizione (che mi pare superiore) e soprattutto Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson, beh, viene da pensare, e male, della giuria. Ma male male male , per citare Abatantuono.