Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film
Anatoli Boukreev, uno degli alpinisti che parteciparono realmente alle spedizioni narrate in "Everest", ha scritto: “Arrivi in cima dopo aver rinunciato a tutto quello che credevi necessario alla sopravvivenza, e ti trovi solo con la tua anima.” Una frase, quest'ultima, che forse coglie il misterioso ed intrepido impulso che spinse e spinge tuttora svariati alpinisti a tentare un’impresa titanica, fortemente logorante e potenzialmente mortale quale la scalata della vetta più alta del globo, l’Everest. Proprio tale impresa si trova al centro del film diretto dal regista islandese Baltasar Kormákur che nel 2015 ha aperto la 72esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
L'opera – tratta dal saggio “Aria sottile” di Jon Krakauer (il quale partecipò all’impresa narrata) e girata in Nepal, in Alto-Adige, a Roma e nel Regno Unito – descrive le tragiche spedizioni svoltesi nel maggio del '96 ritraendo le vicende estreme che due squadre di alpinisti dovettero fronteggiare: durante tali spedizioni undici scalatori incontrarono la morte. La narrazione costruita da Kormákur racconta i fatti in maniera solida e lineare, ma non riesce a eludere alcune pecche: talvolta, infatti, il ritmo dell'opera perde la propria tensione, penalizzato o da alcune lacune contenutistiche o da eccessivi prolungamenti di drammaticità. Durante lo svolgimento della storia, poi, lo sguardo del regista tenta di soffermarsi con toccante realismo sullo spirito di quanti tentarono di sopravvivere ai fatti narrati affrontando difficoltà ed ostacoli pressoché insormontabili: non si può sostenere che Kormákur riesca pienamente in questa impresa; tuttavia, la caratterizzazione dei personaggi risulta sufficientemente funzionale: li rende riconoscibili diversificandone le fisionomie, e permette di avvicinarsi almeno in parte a quanto alberga nell'animo degli stessi. Nonostante ciò, le interpretazioni di attori come Jake Gyllenhaal e Keira Knightley, affiancati – tra gli altri – da Jason Clarke e Josh Brolin, rivestono un’importanza secondaria. Benché gli attori menzionati offrano buone prove attoriali, l'opera si propone soprattutto di insistere sulla descrizione dei fatti accaduti, i quali rappresentano il vero cuore del film nonché ciò che infonde nello spettatore le emozioni più penetranti. In questo senso, "Everest" può forse essere considerata un'opera che trova la propria alimentazione di fondo in un tema di foggia hemingwayana: un gruppo di individui che sfidano Madre Natura (uno dei significati attribuibili al nome “Everest”), che desiderano lottare contro i propri limiti e che vivono l'impresa in cui hanno deciso di cimentarsi come un momento dall'alta pregnanza esistenziale. Conseguentemente, alla visione di "Everest" tendono ad associarsi con una certa spontaneità alcuni tra gli interrogativi più ampi - e, volendo, escatologici - che ci si possa porre: quanto si è disposti a sopportare pur di raggiungere una vetta? Chi, tra Umano e Natura, è destinato a trionfare? Quali gesti opporre dinanzi all'eventualità della Morte?
Kormákur orchestra un film in cui si fondono scenari estremi, sequenze imbevute di tensione e storie toccanti: il tentativo di restituire allo spettatore la totalizzante intensità della sfida legata all'Everest e l'opprimente tragicità dei fatti legati alle spedizioni del '96 può considerarsi riuscito, ma soltanto in parte. Al di là dei difetti riscontrabili qui e là, a "Everest" manca soprattutto una prospettiva d'insieme capace di sublimarne l'essenza.
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