Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film
Antefatto: la vetta più alta del mondo è stata per decenni il sogno proibito di molti scalatori. Ma come, è lì da millenni? Vero, ma a parte rarissime eccezioni (spesso a scopo scientifico), prima del Novecento gli individui non erano così frustrati da doversi inventare simili fesserie per dare un senso alle loro esistenze. Fatto sta che uno su quattro tentava l'impresa e ci lasciava le penne. Poi arrivarono la tecnologia e la razionalizzazione (in senso weberiano) delle spedizioni e l'Everest, grazie a (sarebbe meglio dire per colpa di) Rob Hall (interpretato da Jason Clarke, qui alla prima prova da protagonista dopo essersi fatto notare in Apes revolution e Zero Dark Thirty), diventò accessibile anche ai non professionisti dell'alpinismo, trasformandosi in un luogo più affollato della stazione centrale di Pechino nell'ora di punta. Nel maggio del 1996 Hall partì con la consueta ciurma di assatanati (quasi tutti ricchissimi) per l'ennesima spedizione, convinto che anche questa volta la passeggiata a più di 8000 metri di quota sarebbe andata senza intoppi come nelle precedenti occasioni. Si sbagliava.
Baltasar Kormákur, già regista di film ad alta tensione come Cani sciolti e il più riuscito Contraband, ripiega sul solito schema del dramma catastrofico: presentazione a colpi di accetta sul copione dei cavalieri che compirono l'impresa, con profili psicologici un tanto all'etto, scene d'azione disseminate con assoluta parsimonia per restare nel budget, love-story più o meno larvate. Il risultato è un film didascalico, piuttosto prevedibile, che al di là di alcune riprese da brivido e del cast all-stars offre soltanto una timida riflessione sull'imbecillità umana e su come le persone possano giocarsi la vita con una scarpa chiodata al posto dei dadi. Sul genere, molto meglio andarsi a rivedere l'ottimo La morte sospesa.
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