Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film
Forse bisogna aver provato almeno una volta la sensazione di mistero, minaccia e paura che si vive anche ad altezze inferiori agli 8.000 metri, per apprezzare un film come Everest. Perché nel blockbuster di Kormákur, nonostante gli effetti speciali, il 3D e gli attori famosi, la mostruosità e le logiche dell’alta montagna emergono con una nitidezza e una precisione inaspettate. «La montagna ha sempre l’ultima parola», dice l’alpinista kazako Anatoli Boukreev, ispirato come tutti i personaggi del film ai veri protagonisti di una tragica scalata all’Everest del maggio 1996 e al racconto che ne fece uno dei sopravvissuti, il giornalista Jon Krakauer, nel libro Aria sottile. Morirono in otto, in quella spedizione, tra cui le guide Rob Hall e Scott Fischer (Jason Clarke e Jake Gyllenhaal), scalatori professionisti fra i primi a portare sul tetto del mondo semplici e inesperti alpinisti. Proprio da lì, dall’apertura cioè dell’Himalaya al turismo di massa, prende le mosse Everest. E sempre lì ritorna, sottolineando in modo documentato come la tragedia sia nata da errori, ingenuità e sovraffollamento. Everest ha il pregio di non inseguire quasi mai il cinema di Werner Herzog: non cerca il sublime più del necessario, ma preferisce raccontare in modo credibile un’esperienza al limite dell’umano, trovando l’equilibrio tra le esigenze dello spettacolo e il rispetto per una vicenda di stupidità e passione.
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