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Boyhood

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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La recensione su Boyhood

di Kurtisonic
6 stelle

Ethan Hawke, Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Lorelei Linklater

Boyhood (2014): Ethan Hawke, Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Lorelei Linklater

“I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti, i film vanno avanti come treni nella notte” (da Effetto Notte, F.Truffaut). Il viaggio intrapreso dal regista Linklater è più lungo dei 165 minuti in cui ha compresso Boyhood, e più lungo ancora dei dodici anni di riprese con cui è stato realizzato. Per il regista parlano i suoi lavori, da Slaker alla trilogia Before..la grandezza temporale diventa un’ossessione, un limite entro il quale non ridimensionare il confine fra vita e finzione accomunati da una ricostruzione semplice del tempo che passa. Allora i rallentamenti e gli intoppi vanno di pari passo ad un trascorrere dei giorni che appartengono né al cinema né alla vita, ma alle persone, a come cambiano e si trasformano. I 12 anni di lavoro di Boyhood sono stati girati con lo stesso gruppo di attori che a più riprese nel corso del tempo si sono prestati all’interessante progetto. La loro vita che scorre fuori dal film e che inevitabilmente ricade dentro le immagini perché cresciuti o semplicemente invecchiati, diventa narrazione supplementare che quasi si sovrappone al racconto stesso. Se esacerbassimo il concetto, si potrebbe sfiorare la filosofia di mercato del prodotto seriale che in ultima analisi invecchia e muore nel corso degli anni opportunamente intervallati col ricambio del pubblico, degli sponsor marchettari, e il decadimento fisico dei suoi protagonisti. Linklater dunque punta in alto la sua arma di freschezza , il lungo percorso di trasformazione avviene dentro un unico film, come un mosaico che non solo sintetizza un arco temporale per quello che definiremmo un racconto di formazione ma anche di struggimento, ma che prova ad imporre una diversa relazione con un corpo filmico che muta non solo per severa applicazione del metodo Stanislawskij ma per un’evoluzione comunicativa dei suoi protagonisti che cambiano fuori dalla scena. Un ragazzino di otto anni, Mason, cresce rapportandosi con una situazione difficile causata dal divorzio dei due genitori. Vicenda affatto nuova e originale peraltro, in cui resta al centro dell’attenzione quella forma e quella costruzione che lo devono distinguere e che assoggetta lo spettatore alla sua conoscenza. Aggiungiamoci che “ogni scarrafone è bello a mamma soja” e il registro di Linklater non si può evidentemente discostare dalla commedia dei sentimenti e dal coming of age agrodolce, assistiamo ai dodici anni di vita di Boyhood “senza intoppi ne rallentamenti” che non siano le consuete spigolature quotidiane, gioie e dolori compresi. Nulla si toglie al diritto dell’autore di privilegiare il malinconico travaglio e la nostalgia canaglia, ma se l’intento è quello di scombussolare la certezza dello spettatore, di chiamarlo fortemente in causa di fronte alla mutazione delle persone il risultato rimane incerto. Ma nel manifestarsi delle consuetudini della vita, ci sarà per Linklater qualche scossa, qualche variazione sul tema? Non che si voglia arrivare a fare invadere un set da una realistica nevrosi, perché è bene ricordarlo quello che ci sta davanti è una storia comune ma inventata…mentre tutto si gioca sulla trasformazione delle relazioni e dei sentimenti accompagnata dalla diversità fisica e purtroppo solo quella, dei protagonisti. Assodato che quella di Mason sia la più logica e evidente, quella dei genitori non porta significativamente elementi di novità o verso una lettura più stratificata e meglio ancora al ripensamento: i genitori interpretati da E.Hawke e da P.Arquette sono riconoscibilissimi, hanno reazioni condivisibili ed è impossibile non amarli e capirli. Tutto troppo facile, condito da una variabilità musicale ammiccante che più che sovrapporsi, ha il potere di cancellare e sminuire quanto appena accaduto prima, e anche questo dimostra una certa univocità dello sguardo che Linklater vuole portare fino in fondo. Un sovraccarico simbolico che anziché giovare, mette più in luce le debolezze del film. Rimane di certo la buona prova degli attori, al servizio dei loro personaggi, che parallelamente maturano dentro il racconto, destinato però a restare troppo nella convenzionalità. Mettere vicino il percorso degli attori in Boyhood è simile al vedere esprimere lo stesso attore in ruoli completamente diversi, antitetici e lontani? Non è così che un corpo, un volto, diventa un’espressione più compiuta perché si trascina un vissuto cinematografico che diventa quello dello spettatore che lo segue? E’ la stessa cosa? Parlare di film epocale, seminale, e “dopo di che nulla sarà più come prima” mi fa pensare al treno della notte truffautiano, alla semplicità del cinema contrapposta alla complessità della vita. Una dentro l’altra, una in funzione dell’altra, senza che nulla prevalga. Forse un’occasione mancata per un film che ha davvero puntato troppo in alto per essere vero.

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