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Boyhood

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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La recensione su Boyhood

di barabbovich
7 stelle

L'idea è geniale, innovativa, coraggiosa: raccontare la storia di Mason (Coltrane), di sua sorella (Linklater) e della madre (Arquette) che li sta crescendo da soli, nell'arco di dodici anni. Dodici anni veri, però: quelli durante i quali, dai 6 ai 18, vediamo crescere Mason un po' alla volta, sua madre imbolsire, suo padre (Hawke) fare qualche comparsata giocherellona, il tutto girato nell'arco di soli 39 giorni spalmati in tutto quell'arco di tempo. Se prescindiamo da come Truffaut ha seguito per due decenni Jean Pierre Lèaud (da I 400 colpi a L'amore fugge), dall'epica di Heimat e dalla trilogia che lo stesso Linklater ha costruito con la stessa coppia di attori (Ethan Hawke e Julie Dephy) nell'arco di un ventennio (Prima dell'alba, Prima del tramonto e Prima di mezzanotte), al cinema non si era mai visto nulla del genere, nessuno prima di lui aveva finora scommesso su un progetto che qualsiasi accidenti avrebbe potuto fatalmente interrompere. Siamo alla versione più radicale del racconto di formazione, quella in cui i riti di passaggio, i continui traslochi, i cambi di città, i mariti della madre (entrambi alcolizzati) che vanno e vengono, le amicizie a scuola, i primi amori, fino al college e all'ingresso in una vita che porterà Mason fuori da casa sono raccontati come tappe archetipiche, necessarie, alle quali siamo chiamati come testimoni di un'esistenza che sembra essere (quasi) quella di tutti. Fin qui tutto bene. Peccato che il film che si è aggiudicato l'Orso d'argento al festival di Berlino finisca col sembrare una qualsiasi antologia di vissuto comune, dal taglio quasi documentaristico e intimista, con la Storia lasciata quasi sempre sul retroscena (c'è giusto il riferimento a Obama e pochissimo altro, mentre un ruolo più funzionale lo svolge la trasformazione della tecnologia). Un'occasione in parte persa, dunque, in nome di un racconto quasi asettico, privo di sussulti, di un cinema dei corpi che gioca sostanzialmente sulla sola trasformazione fisica, affidando al racconto di formazione vero e proprio un ruolo del tutto sussidiario.

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