Regia di Richard Linklater vedi scheda film
Richard Linklater non è un genio: è uno che ce l’ha fatta, con la tenacia di chi crede ostinatamente in un progetto. Dopo la memorabile trilogia d’amore lunga vent’anni e scandita dalle scadenze della giornata (alba, tramonto, mezzanotte), ecco il film che qualunque regista avrebbe voluto realizzare. È un lavoro bellissimo, Boyhood, sul quale si potrebbe filosofeggiare parecchio – e non ne sono in grado. Al di là della spericolata ed interessantissima operazione produttiva (un film realizzato nell’arco di undici anni, tra il 2002 e il 2013, seguendo il percorso di crescita del protagonista e quindi dell’attore), è un lavoro (mi piace sottolineare quest’espressione così dignitosa) che gioca sull’essenzialità e sull’epica.
Facciamoci a capire. Essenziale, certo, perché niente è fuori posto o fuori luogo, tutto è dosato con elementare raffinatezza: procedendo di pari passo con il tempo effettivo, il tempo immaginario della storia subisce inevitabilmente le conseguenze del tempo vero, quindi nessun invecchiamento posticcio, nessuna stucchevole strizzata d’occhio cromatica, nessun anacronismo. Il film parte che pare venir diretto dal cinema indie dei primi anni dello scorso decennio, con Patricia Arquette un po’ sfatta (grande interpretazione di madre scombinata e tormentata ma empatica) e i colori limpidi e malinconici della provincia americana, procede lungo le strade del new american dream obamiano e arriva all’apoteosi dell’immagine digitale nei campi lunghi della solita incontaminata e catartica natura. E così Boyhood si fa non tanto metafora quanto proprio riproduzione (messa in scena fino ad un certo punto, tanto è lo spirito finto documentaristico del racconto strepitosamente scritto dall’eroico Linklater) di una nazione a cavallo tra la ferita del terrorismo e la voglia di rinascita. Eppure, onestamente, il contesto geostorico interessa in modo relativo.
E qui siamo all’epica. Epica del quotidiano (il romanzo di formazione vero e proprio), epica della tragedia (i continui trasferimenti dovuti ad occasionali patrigni alcolizzati), epica del distacco (l’allontanamento dal nido dopo il diploma), epica musicale (i pertinenti contrappunti canori, dagli Arcade Fire a Bob Dylan). Cos’è l’epica? La narrazione di un popolo o di un personaggio attraverso cui si tramanda la memoria e l’identità di una civiltà. Nei limiti e nei termini del contemporaneo, Boyhood è esattamente questo: il racconto di un piccolo antieroe (il cinema americano dalla New Hollywood in poi è un cinema fondato sugli antieroi) che attraversa non solo una vita disordinata suo malgrado con uno sguardo coerentemente disilluso e sorridente, ma anche le fasi di un popolo (e in fondo della sua generazione) in divenire (e, trattandosi di America, inevitabilmente l’evoluzione della cultura pop e la sua incidenza, dalla pottermania agli emo passando per la guerra).
Probabilmente la si pone in un’ottica troppo seria, grattando grattando non si può che evidenziare una dolcissima affinità con l’operazione Doinel di Truffaut (benché appaia oggi classica e forse semplice, visti i lunghi intervalli tra un film e l’altro) e pure con la precedente trilogia amorosa (con gli stessi confini temporali del ciclo Doinel), e inoltre dovremmo tener presente l’istinto da sempre sperimentale di Linklater. Ma qui, signori miei, abbiamo a che fare con un grandissimo film larger than life di cui, forse, assuefatti dal tecnicismo esasperato, non stiamo celebrando abbastanza il valore squisitamente artigianale, la purezza della sua forma lineare e miracolosamente compatta, la semplicità che impone di sottrarre il ghirigoro all’immagine, il ritmo dell’eloquio. E poi il meraviglioso lavoro su Ellar Coltrane sarà al centro, ne sono sicuro, di numerose trattazioni sul rapporto regista/attore, sul rapporto fiduciario che si instaura fra i due, sull’evoluzione dello stile recitativo che non intacca il temperamento artistico e così via. Un saggio di recitazione che segna una carriera all’alba, certo, forse, ma che attore, che attore!
Tre scene da mandare a memoria forever. Ethan Hawke (splendido padre immaturo ma amorevole) che regala al figlio The Black Album dei Beatles, o meglio le esecuzioni da solisti di Paul, John, George e Ringo amalgamate in un remix creato apposta per l’occasione. Il senso qual è? Che solisti erano sì bravi, però in gruppo erano i più grandi: «È l’equilibrio, Mason!». Ancora padre e figlio, dentro un locale in attesa di un concerto, che disquisiscono sul senso della vita col pretesto di parlare della delusione amorosa di Mason, ampiamente prevista dal babbo (che a sua volta ripensa alla mamma del figlio, amore consumato troppo in fretta). «E il punto qual è?» chiede il ragazzo. «Il punto? Nessuno lo sa!» risponde il padre e per un attimo si ha come l’impressione che, per la prima volta, egli sia il padre ideale.
E poi Patricia Arquette che sbrocca dopo una vita sbagliata appresso a uomini discutibili, che vede vicina la fine e non vuole che il suo bimbo se ne vada. La lasciamo lì, che piange come quelle donne che credono di perdere il senso d’ogni cosa quando i figli abbandonano il nido ed invece sanno che tutta la loro esistenza era finalizzata a quella scena sofferta ma doverosa. E poi c’è il finale con Nicole (quella compagnuccia di una delle tanti classi di Mason che, in un bigliettino, gli scriveva di apprezzare i capelli appena tosati?), con l’ipotesi di un amore finalmente normale e di una vita nuova, magari migliore o magari peggiore. Avevo detto tre scene, ne ho citate quattro, potrei arrivare a diciotto. È un film commovente che vorresti non finisse mai.
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