Immaginiamo le facce dei produttori quando Richard Linklater, regista indipendente con qualche puntata nel cinema mainstream (School of Rock), si è presentato con la sceneggiatura di quello che poi (inizialmente il titolo era "12 years) sarebbe diventato "Boyhood". Il progetto infatti prevedeva di utilizzare il tempo reale e non quello fittizio per rappresentare anche in fase di cambiamenti fisici e anagrafici il percorso esistenziale di Mason e della sua famiglia, protagonisti del racconto. Si trattava in pratica di suddividere il set del film in 12 parti, da girare necessariamente anno dopo anno fino ad arrivare a più di due lustri di durata. Linklater ahimè per lui non era Kubrick, famoso ai suoi tempi per una simile idea poi addomesticata e normalizzata dal punto di vista cimematografico con "Intelligenza Artificiale", e così tanto ardire deve aver stupito non poco i suoi interlocutori. Che però, in silenzio, e con molta speranza si sono imbarcati in un impresa poi felicemente coronata dai riconoscimenti, anche critici, ricevuti all'ultima berlinale.
Così, seguendo alla lettera le premesse del titolo, Linklater filma il persorso esistenziale e geografico di Mason, figlio di genitori separati che insieme alla madre e alla sorella cerca di trovare il suo posto nel mondo tra gli alti e bassi che caratterizzano il quadro emotivo e psicologico di qualsiasi vita umana. Ed è proprio la ricerca di questa normalità da parte del regista, pur in quadro assolutamente disfunzionale - valga per tutti il reiterati fallimenti matrimoniali della madre e l'eterna adolescenza del genitore - a costituire la peculiarità che fa la differenza. Perchè Linklater, dal canto suo, invece di far pesare sul piano estetico e di marketing la scommessa delle sue scelte, le investe in termini di credibilità e verosimiglianza. Conoscendo le dinamiche dell'inconscio ed i condizionamenti che esso riceve dalla visione delle immagini, il regista sembra quasi nascondere il tesoro del film dietro il flusso temporale che scorre davanti ai nostri occhi per farlo tornare sotto forma di immedesimazione. Una progressione che ha l'estensione di un romanzo, ed almeno all'inizio, la sua fatica introduttiva. Ma è solo un momento perchè con il passare dei fotogrammi il dispositivo messo a punto da "Boyhood", con i volti degli attori naturalmente modificati dalla particolarità della lavorazione, smette di essere finzione per diventare vita.
Nel raccontare il suo arco cronologico, "Boyhood" non cade in tentazioni da riassunto del bigami, e quindi nelle rappresentazioni da cartolina, preferendo riflettere i cambimenti storici in maniera indiretta: mediante le parole di un telegiornale o nei discorsi dei personaggi, oppure evidenziando la progressione anagrafica di Mason attraverso l'evoluzione dei mezzi di comunicazione (computer, cellulari e tablet), colti con rapidi stacchi della mdp. I cambiamenti fisiogomici e quelli emotivi diventano allora il vettore di un umanesimo ricco di grazia e di leggerezza che Linklater ha messo progressivamente a punto con il rigore della sua carriera (soprattutto attraverso la trilogia dedicata a Celine e Jesse) e che qui tocca, secondo chi scrive, il punto più alto. Spalleggiato dal suo attore feticcio, quel Ethan Hawke ormai abbonato ai ruoli "in diretta", ma anche da Patricia Arquette e Ellar Coltrane (Mason) bravo nel non farsi condizionare dalla responsabilità del ruolo, il regista americano crea un universo che si tocca con mano, e che riesce ad farsi amare senza alcun ammiccamento e pur con le forti dosi di sano pessimismo. Se Tarkovsky diceva che il compito del cinema è quello di cattura il tempo e il suo divenire, allora dobbiamo dire che oggi Linklater è il migliore dei suoi allievi.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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