Regia di Alex Garland vedi scheda film
Fantascienza da camera.
L'aneddoto di Mary che vede in bianco e nero, raccontata a degli giovani scienziati durante un seminario sull'intelligenza artificiale, è nevvero simile all'allegoria della caverna platonica, aggiornata un po' ai tempi odierni. Mary è un robot a conoscenza di tutte le proprietà dei colori, dunque le caratteristiche delle onde elettromagnetiche e i riflessi della percezione nell'occhio umano. Ma è chiusa in una stanza in bianco e nero. Quando però esce e può sentirsi libera di esperire il creato, ecco che impara una cosa che non poteva imparare da rinchiusa: l'emozione di vedere i colori.
Ecco, forse il parallelo con l'allegoria della caverna è forzato, in quanto quest'ultima distingue da una vita fatta di illusioni (che siano effettivamente le certezze scientifiche?) quella vera priva di maschere e di ombre (la verità delle emozioni?), ma rende sicuramente l'idea a livello estetico. Il mondo delle certezze, quelle della percezione e addirittura dell'intelletto, e il mondo delle emozioni.
Tutto Ex Machina si interroga, formalmente, sul divario che c'è fra la freddezza della materia grigia e la luminosità dei sentimenti, passando attraverso le passioni, le bassezze, i feticismi. Niente che possa essere raccontato per filo e per segno, per evitare l'anticipazione, ma si tratta di una formula accuratamente imbastita per generare una fantascienza todoroviana che vibra di dubbi, ambiguità, incertezze, un po' compiaciute ma fin troppo ben calcolate per non lasciare il segno. Esteticamente il film è di una precisione inaudita, che rischia quasi il lezioso e la freddezza del perfezionismo (il grande limite del film), ma ricrea in maniera notevole il continuo battibecco fra verità e finzione. La visione stessa, filtrata attraverso le telecamere di sorveglianza, gli specchi, le ombre e le luci metalliche di una casa-laboratorio senza finestre, è fautrice di inganno. Si potrebbe pensare a troppa carne al fuoco (si tratta dell'opera prima di uno sceneggiatore), non appena si mette in gioco anche la percezione - di sé e del mondo - del protagonista, ma le rivelazioni si susseguono con troppa fluidità (anche narrativa) per non convincere, alla fine, al netto di una piccola, trascurabile, quantità di forzature (io so che tu avresti fatto questo, ma io so che tu sapevi, e via discorrendo). Alla fine gli interrogativi morali-esistenziali che vengono proposti da Ex Machina sono onesti, scomodi e tutt'altro che innocui, addirittura cosa rende umano un essere umano. La risposta, che prescinde il manicheismo a poco a poco formatosi per l'intera durata del film (e anch'esso, forse, finzione), dà un'idea forte, evidente, per nulla sbrigativa, che tematicamente ha la stessa intensità di un sentimento, la magia di una nuova conoscenza. Ma che forse rimane agghiacciata per l'eccessivo formalismo.
Dunque, Alex Garland non è riuscito a fare un capolavoro. Un grande film probabilmente, che estrae del nuovo da ciò di cui già si era parlato, e di cui sulla carta non si sentiva il bisogno. Ma un film che rimane teorico, e "metallico", nonostante abbia l'ambizione di andare oltre. Costruito benissimo (fa venire allo spettatore gli stessi dubbi che vengono al protagonista), ma troppo ponderato. L' "uscita" finale, oltre a presentare alcune soluzioni visive un po' scontate, dà però la misura di quanto il film propone, a livello di dubbi angosciosi sull'uomo e sull'ingrediente primo della sua umanità: la ricerca della libertà. E nonostante tutto rimanga sulla carta, e non ci sia quel tocco che renderebbe il film "esperienza da vivere" (leggasi capolavoro), Ex Machina comunque è in grado di non dare risposte, di aderire alla coltre metallizzata della sua regia ma di non spiegare i perché, che poi era l'obbiettivo dell'action painting di Jackson Pollock, agire sul momento senza il peso delle sovrastrutture, solo il caos della mente.
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