Regia di Fatih Akin vedi scheda film
Dalla Turchia della Prima guerra mondiale al North Dakota degli anni 20, passando per la Siria, il Libano, Cuba, la Florida e Minneapolis: Nazaret Manoogian, fabbro armeno, vittima del genocidio del suo popolo perpetrato dai turchi, privato della voce, della casa, del lavoro e della famiglia, scampato miracolosamente al conflitto e alla morte, insegue per mezzo mondo le figlie disperse e forse ancora vive, con la pervicacia di quel ragazzino che chiedeva della madre Dagli Appennini alle Ande. Difficile aspettarsi, da Fatih Akin, un tale polpettone fiacco e didascalico, eppure Il padre (che in originale si intitola The Cut, come il taglio che danneggia le corde vocali del protagonista e contemporaneamente gli salva la vita) è proprio così: intreccia urlando similitudini banali (Nazaret figura cristologica fin dal nome), annacqua subito il fatto storico (peccato ancor più grave, se si pensa a quanto raramente il cinema se ne sia occupato) relegandolo a mero pretesto d’avvio dell’avventura, punta al classicismo da kolossal ma non ne afferra mai la potenza epica ed evocativa, si poggia su una sceneggiatura (inspiegabilmente scritta con lo scorsesiano Mardik Martin) che allinea meccanicamente fallimenti per un soffio, agnizioni da feuilleton, improbabili fortune, fin quando la testarda ricerca delle ragazze non scivola dal drammatico al tragicomico. Le intenzioni e le ambizioni si vedono tutte: è per questo che la caduta suona ancor più fragorosa.
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