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Il padre

Regia di Fatih Akin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il padre

di laulilla
4 stelle

Dalla fine dell’Ottocento, quando sempre più evidente era la crisi dell’Impero Ottomano, il movimento nazionalista dei Giovani Turchi aveva scatenato persecuzioni violente contro le minoranze culturali e religiose che componevano la complessa realtà multietnica del territorio imperiale.

 Fu soprattutto durante il primo conflitto mondiale (1914-1918) che la persecuzione raggiunse aspetti di inaudita ferocia, soprattutto contro gli Armeni, anche per il concorso decisivo dell’esercito turco, che aveva arruolato molti avanzi di galera, a cui principalmente sono attribuibili le violenze più gravi.

 

Il padre è il racconto dell’odissea di Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), fabbro che onestamente viveva del proprio lavoro a Mardin, città del Nord-Est anatolico – dominato dai Turchi – ma da millenni sede degli insediamenti armeni.

Nelle scene iniziali del film vediamo il giovane al lavoro, ben inserito fra i suoi concittadini, e nella casa, condivisa con l’amata moglie e con le due figliolette gemelle, ancora piccole.
Una notte del 1915, nel pieno della grande guerra, Nazaret, come gli altri uomini armeni della città, veniva allontanato con la forza dalla sua dimora, poiché un gruppo di militari armati dell’esercito turco gli aveva intimato di arruolarsi al servizio dell’Impero Ottomano, alleato delle potenze imperiali dell’Europa centrale.
Iniziavano, da quel momento, le sue vicissitudini: come altri armeni reclutati sarebbe stato costretto a lunghissimi e faticosi spostamenti nei deserti dell’Anatolia, sottoposto alle più efferate brutalità, delle quali avrebbe portato per tutta la vita il segno: una ferita alla gola gli aveva tranciato le corde vocali, lasciandolo muto per sempre.

 

La seconda parte del film racconta i viaggi di Nazaret alla ricerca delle gemelle, uniche sopravvissute della famiglia, decimata dagli stenti e dalle fatiche: lo vediamo in Libano, in Siria,a Cuba e infine negli Stati Uniti, dove viveva ancora una sola delle gemelle infine ritrovata.

La fotografia, che utilizza i campi lunghi e lunghissimi, comunica sia la solitudine del protagonista, immerso in una natura ostile e spietata, sia, simbolicamente, l’aridità del sentire degli uomini feroci che si erano messi al servizio della causa odiosa dei Giovani Turchi.

 

Questa è, secondo me, la parte migliore del film, in cui, come nelle immagini suggestive del deserto, si riconosce il miglior Akin, il regista turco-amburghese, cinefilo colto e citazionista che evoca le pagine suggestive di "Ararat" di Atom Egoyan  (da Charlot, a Il te nel deserto a Lawrence d’Arabia a Sergio Leone).

 

Meno convincente il melodrammatico racconto della forzata diaspora degli Armeni, presto trasformato nell’evocazione delle lacrimose vicende del povero Nazaret,
che si dilunga senza entrare nel merito del dibattito storico e politico, ovvero se i tragici fatti di allora furono effetto di una dolorosissima guerra civile o di un genocidio perseguito con determinazione in vista di un folle disegno di dominio.
Fatih Akin denuncia cautamente le efferatezze più gravi, ciò che mi pare sia tuttora perseguibile penalmente in Turchia. Per effetto di questa prudenza, il film si è rivelato, fin dalla sua prima uscita alla rassegna di Venezia (2015), molto al di sotto delle attese che aveva suscitato.

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