Regia di James Marsh vedi scheda film
Non è difficile vederlo come Oscar: ha tutti gli ingredienti giusti per i palati americani, compreso quel pizzico di sfottò per la voce metallica americana che non ce n’era nessun’altra disponibile.
D’amor struggente, ricco di gloria e buoni sentimenti, intelligente quanto basta ai middle-class (forse un po’ di più, ma non fa niente: allunghiamo un po’ il brodo e capiranno), spaziante dal registro universitario/scientifico a quello intimistico/familiare (corna comprese) passando per un’Ave Verum di Mozart (che, anche quella, tutti la capiscono) ed un’abbondante dose di retorica amicalità (amicalismo?), “The Theory of Everything” sarà ricordato dal sottoscritto soprattutto per la colonna sonora (anch’essa in lizza per l’Oscar), da un’ottima prestazione del protagonista nei non mai facili panni di un uomo molto malato, e dall’ingiurioso utilizzo di Emily Watson come suocera minimalista, beffardamente inserita poi tra i primi quattro attori nei titoli di coda.
Si guarda giusto perché va guardato. Il resto, è un buco (nell’acqua) nero.
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