Regia di James Marsh vedi scheda film
The Theory of ... Beautiful.
«Guarda cosa abbiamo fatto», le fiere "parole" pronunciate dalla voce meccanizzata di Stephen Hawking rivolte alla ex moglie indicando i tre figli mentre giocano felici negli immacolati regali giardini di Buckingham Palace. Commozione. E subito dopo, parte un bel riavvolgimento contenente i momenti clou appena vissuti, dalle varie fasi della malattia fino all'incontro, al ballo con l'amata sotto un cielo di stelle. Commozione, ancora. Basta questo lezioso finale - al quale sarebbe stato opportuno e salutare arrivare senza sorbirsi due orette di tutto/nulla - per comprendere, senza sforzo cerebrale alcuno, l'equazione unica che racchiude il (puerile) senso unico del film.
Non c'è la minima traccia di materia grigia applicata a questa opera che percorre strade strabattute per raggiungere una meta classica, irrinunciabile (il plauso generale, generalizzato e generico di pubblico e critica) usando mezzi e mezzucci ultra-elementari. Non un'inquadratura, non un primo piano o una scena o un profluvio lacrimale, non una nota della colonna sonora ("giudiziosamente" pomposa) messa inevitabilmente al momento giusto, che risultino "fuori posto" nel grande disegno: ogni cosa è calcolata e calibrata nella maniera più conciliante, impersonale, universale possibile.
Agiografico, senz'altro, e superficiale, il ritratto del più popolare matematico dell'era moderna dopo Einstein: l'insieme degli elementi che lo riguardano (appartenenti esclusivamente alla sfera affettiva e a quella "salutistica"), è semplicistico, approssimativo, insignificante. Nessuna complessità, zero approfondimento, nessun tentativo di affrontare percorsi differenti: una tale figura iconica - una specie di momumento vivente per fisici e nerd dell'intero globo - meritava ben altro approccio, magari un minimo di rischio, di sfrontatezza, qualcosa di realmente disturbante.
Ed invece ogni tematica potenzialmente interessante viene matematicamente mortificata, buttata a casaccio - e con la prudenza tipica dello scolaretto diligente ma privo di alcuna iniziativa nonché di idee che intende solo compiacere gli insegnanti - nel brodetto preparato come si conviene: scialbo, incolore, edulcorato, buono per tutti e per tutto. Così, ad esempio, il dilemma fede/scienza giace mesto dentro imbiancati recinti di dialoghi di circostanza superficiali, la "sovversività" delle teorie hawkinghiane all'interno del mondo accademico è relegata nell'angolino dei giochi dei bambini, la fertile collaborazione con altri colleghi assente, la discussione sul suo pensiero resta su livelli rozzi, elementari. Meri mesti oggetti, opachi accessori del tutto, insomma: formula omnicomprensiva che niente comprende.
A prevalere sono il raccontino, gli automatismi empatici, la rassicurante - tombale - linearità delle cose, la bravura e la bellezza degli interpreti. Attori che sono, manco a dirlo, "perfetti": l'uno - Eddie Redmayne/Hawking - per la meccanica performance mimetica (quella che solleva gli "oohhh" del pubblico fino a che titoli di coda non li separa), l'altra - Felicity Jones/Jane Hawking - per l'indubbia, angelica, meravigliosa bellezza (non è certo un merito del regista: anche un cipresso depresso se ne innamorerebbe all'istante).
Ma soprattutto, a dominare, impudentemente, è il côté sentimentale: imbarazzante, grossolano, incredibilmente stucchevole da qualunque lato lo si voglia guardare, noiosissimo e lunghissimo; si divora, fagocita, assimila, gran parte del film, digerendo ed evacuando l'ipercalorica paccottiglia verso balorde derive soapoperistiche in stile Beautiful e dintorni.
Sì, sulle ideali lavagne di coloro che concepiscono, producono e realizzano questi prodotti di largo consumo ma dall'allure intellettuale-impegnato, già da tempo vi è incisa l'equazione unica sull'origine dell'universo-acchiappapremi.
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