Regia di Luc Besson vedi scheda film
«Il tempo è la sola unità di misura», sentenzia Luc(y).
Il suo fluire, piegarsi, accelerare e rallentare, sospendere e (far) dissolversi, espandersi - sino all'infinito e oltre (lo spazio, le dimensioni, i bit, lo scibile umano) - rivela e determina l'esistenza stessa.
Concetto bas(ilar)e, e pensiero interessante, sì (per di più accompagnato da istantanee illustrative ad elementare propulsione didascalica-metaforica) ... nulla che però possa celare il reale valore, che è quello di una nuda e pura esposizione d'intenti, un orgoglioso firmarsi.
In fondo - e non ci vuole molto a capirlo - tutti gli input aventi un qualche fondamento teorico sparsi lungo la pellicola, non sono altro che accidentali veicoli sul voracissimo percorso netto tracciato, elaborato, realizzato dall'autore [laddove, per "autore" non si intenda alcuna valenza culturale-intellettualistica, bensì la semplice identificazione di un costruttore di ipersaturi mondi cinematografici].
Non si prendano sul serio quindi, mai, nozioni e ipotesi che magari altrove (nella fantascienza adulta e colta, ad esempio) hanno peso e significati rilevanti anche e soprattutto per comunicare ben altro; idee stesse per giunta in gran parte derivative, riprodotte da cellule esistenti formate all'interno di un immaginario collettivo dal quale si attinge regolarmente.
Con quello che è il suo vivido manifesto programmatico, Besson rivendica "banalmente" la sua arte/artigianalità nel saperlo gestire, il tempo. Come mezzo di trasporto (lanciato a velocità supersonica) di dati multimediali, come forma rudimentale (pur attraversata da chiassosi turgori tecnologici) di intrattenimento puro e bastardo; e come esaltante cavalcata filmica autoconclusiva. Il regista fissa e racchiude il suo discorso facendo deflagrare una storia lineare innervata da un copioso numero di fibre riciclate (e iniettata di dosi/meccanismi - e finanche simbolismi - convenzionali), girando sequenze altamente spettacolari (la folle corsa dell'auto pilotata dalla principiante Lucy contromano, la sparatoria all'università, quella mancata all'ospedale con gli avversari fatti "precipitare" al soffitto, gli spasmi tradotti in evoluzioni coreografiche per gli effetti della droga sintetica), usando con logica meramente "grandiosa" e sentimento "divulgativo" abbondanti effetti speciali, manovrando personaggi-manichini di uno scenografico (e digitalizzato) rozzo gioco schizzato, dal finale ampiamente prevedibile ma nondimeno sgradito, anzi.
Il resto - quello che conta - è il senso di Luc. Per il tempo. E per la Femmina (100% di capacità cerebrali applicate).
Imporre i ritmi con eccellente abilità, quando azionare il (super)turbo e quando rallentare, sollecitare emozioni e concedere riposo, dimensionare (sul piano spaziotemporale) inquadrature, serie di file, riprese; attrarre verso il buco nero di stasi programmatiche per poi esplodere in violenti flussi di barbaro folle divertimento (ovvero il fine ultimo).
E la libertà di scegliere come, quando, e per quanto incollarsi beato e devoto a Lucy/Scarlett, alla sua faccia indecente e al suo corpo selvaggio, alla sua fantasmagorica presenza/essenza. Anche quando si tramuta in assenza, perché come "minaccia" (e che bella minaccia) alla fine, lei (Lei) è «ovunque».
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