Regia di Luc Besson vedi scheda film
Quel pasticciaccio pop di Luc Besson verrebbe da definire l’ultimo lungometraggio del regista-autore d’oltralpe, tornato (in buona forma) sui gloriosi sentieri dell’action movie (venato di melanconico noir, ma non in questo caso) che ha contraddistinto il suo cinema prima maniera, (ri)aggiungendovi una spruzzata considerevole di sci-fi di matrice yankee (come da sempre è il suo immaginario) insieme ad ennesime riflessioni esistenziali sul ‘cosa siamo e cosa saremo’.
‘Il mio cinema è donna’ pare dichiarare a pieni polmoni Besson, nel regalarsi e regalarci un’altra perla del proprio genio (addomesticato, offuscato o smarrito) anche stavolta dalle sembianze di una tosta eppure umanissima supereroina, da affiancare alle già leggendarie Anne Parillaud, Natalie Portman e Milla Jovovich.
È Scarlett Johansson, involucro perfetto in cui innestare la sua (quanto?)nuova idea filmica, e attorno cui far girare una storia esile esile, fascinosa quanto farraginosa, forte di un potente incipit, che parla per immagini, che trova nelle immagini il suo reale, unico punto di forza.
Il suo unico senso a senso unico.
Al di là dell’opera in sé, stilisticamente aderente ai topoi della poetica bessoniana ----basti pensare agli splendidi ralenti con cui in passato il regista di Léon ci ha stregati, introdotti nel pieno di un’azione sempre ben condotta, ad enfatizzare il momento, e la musica (classica) che sovrasta il suono delle parole, a fare da contrappunto al sanguinario scontro a fuoco----, l’intenzione a monte del progetto Lucy, per chi scrive, pare essere quella di aver voluto celebrare l’immagine e il suo enorme potenziale comunicativo, in quanto grande, indiscussa sovrana dell’età contemporanea.
E naturalmente il cardine su cui si fonda il cinema.
La sfrenata sovraccarica barocca spettacolare gioiosa esplosione di un vasto e variegato campionario di effetti speciali, computer grafica, soluzioni visive che hanno fatto letteralmente scuola sono l’essenza di Lucy.
Film non-film che ne narra la storia, i suggestivi multiformi virtuosismi, la loro evoluzione -nel tempo- sotto un profilo strettamente tecnologico, il loro divenire -col tempo- veri e propri miracoli dell’arte visiva in movimento, da rasentare se non centrare la perfezione così come viene colta ad occhio nudo. Il che vorrebbe dire presentare l’elemento fantastico eliminando quella sensazione di finto e posticcio che si avverte osservandolo, per arrivare a percepirlo come assolutamente reale per quanto reale non lo sia affatto.
Besson non inventa nulla, ma proprio nulla che non sia stato già visto e masticato altrove.
Si limita a riproporre.
A rimescolare nell’enorme calderone dell’effettistica visiva degli ultimi 40 anni applicata al cinema.
A impiattare e servire in una gradevole confezione sgargiante, con fare teso e mai approssimativo, a metà strada tra il serio gustoso ed il faceto giocoso.
Lucy è uno strano oggetto, accattivante quanto basta per riuscire a catalizzare nei suoi scarsi 90 minuti di durata l’attenzione dello spettatore. Si lascia guardare senza problemi, pare addirittura provocare assuefazione con quel perenne bombardamento di immagini ad effetto. Ma Lucy, per quanto si compiaccia nel dichiararsi fuori dagli schemi, non deraglia mai dai binari della convenzionalità visiva: non è un’opera visionaria, né sperimentale né tantomeno rivoluzionaria in termini di sguardo.
Non solletica più di tanto la curiosità (non te ne dà il tempo) e non tramortisce sul piano emozionale.
Sembra un prodotto vintage o del passato prossimo già remoto. Ma divertente.
Viene spontaneo domandarsi cosa e quanto lascerà il film a fine visione.
Forse quei misteriosi cristalli del colore delle profondità del mare, forse qualche faccia o scena giuste, di certo, il fascino magnetico di una Scarlett Johansson plasmata secondo la volontà del suo scanzonato demiurgo, eterno vivace ragazzino, oggi più di ieri, che proprio non si decide a crescere.
E forse, è meglio così.
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