Regia di Marco Risi vedi scheda film
I sogni infranti sono ruvidi al tatto. Si presentano duri, beffardi, spigolosi. Dissonanti rispetto alla soffice melodia dell’arte. Quando la mancata bellezza non si arrende rischia di diventare una volgare caricatura, lo sfogo pacchiano di un’illusione andata a male. Questa volta Marco Risi affonda le mani in un marcio che cerca di non puzzare, che a suo modo ancora profuma, benché si rassegni ad emettere lo stucchevole sentore di una fragranza a buon mercato. I suoi personaggi sono attori veri, volti noti a molti telespettatori, e che però si sono fermati ad un passo dalla fama. Interpretano le vicende di chi, nonostante tutto, continua a credere nel mestiere che ama, anche se sa di non avercela fatta, di non avere sfondato, di non avere avuto la fortuna sperata. Gli uomini di questa storia fanno parte di una squadra: sono calciatori amatoriali, disputano partite di beneficenza negli stadi della provincia italiana. Sono affiatati, uniti dal loro comune destino di mediani, benché sotto sotto divisi dal malanimo che, in ognuno di loro, sta seminando la frustrazione, il senso di un incombente ed inevitabile fallimento. Fa uno strano effetto vederli così teatralmente appassionati, a formare un mucchio anonimo e spento, nello scenario in cui svettano singole celebrità (Maurizio Mattioli, Sebastiano Somma, Luca Argentero). Resistono allo squallore in parte rimuovendolo dalla mente, in parte ribellandosi apertamente, in parte, infine, tuffandosi a capofitto nei suoi sudici backstage. Una rabbia già vista, infarcita di sesso, battutacce e varie meschinità, si propone come la manifestazione di un’aspirazione degenerata in ossessione, in mania che si mescola agli istinti più beceri, mentre, nell’ombra, traccia nervosamente col dito la linea in cui la necessità confina col degrado morale. Un’amarezza di maniera apre la strada agli stereotipi del tralignamento, della devianza, della disperazione che non trova altra via di scampo che chiudersi in se stessa. In casa propria si incontra solo una mortifera comodità. Si riconosce l’immagine familiare dei propri insuccessi. Succede al ragazzo che convive con una signora di mezz’età, una che conta nel showbiz. E al quarantenne che decide di tornare al paese natio, da dove era partito pieno di speranze, e dove ora lo aspetta, intatto, il contesto deprimente che si era lasciato alle spalle. Succede al cinquantenne dall’oscuro passato, che si ritrova faccia a faccia con un nemico di vecchia data. La delusione trasforma il ballerino di fila in un pusher. Ed il cantante di un locale in uno stupratore. Si può credere che tutti i limiti possano saltare, che il male sia endemico, dilagante, pernicioso, ed abbia l’affermazione personale come unico palliativo. Si può anche guardare a questo film come all'ennesimo atto di denuncia contro la mitizzazione mediatica di un mondo che è putrescente e non se ne preoccupa, come se ciò fosse parte del gioco. Ma si può anche respingere questo logoro gusto di curiosare nel solito rovescio della medaglia, a caccia dei freaks che popolano il sottobosco di un universo luccicante e fanno da rozzo contraltare alle stelle. Esseri, al contempo, sfigati e mostruosi. Vittime e carnefici, nella logica spietata che fa fuori i più deboli, o quelli che, semplicemente, sono più soli.
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