Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Era dai tempi in cui vidi Il fantasma della libertà, penultimo film di Buñuel, che non vedevo un film così surrealista. In un contesto tipicamente nordico, Roy Andersson, uno degli ultimi veri surrealisti sul suolo europeo, mette in scena una clamorosa e raggelata solitudine, assurda come se davvero l'esistenza fosse il frutto dell'immaginazione di un piccione seduto sul ramo di un albero, dentro la teca di un museo naturalistico (per parafrasare il titolo di un film dello slovacco Jakubisko: sono seduto sul ramo di un albero e non ho capito come mi sento). E tuttavia l'approccio del regista svedese, che figurativamente mi ricorda (più che il connazionale Bergman) il danese Dreyer e il nostro Cinico Tv, è tutt'altro che piagnucoloso e cosmicamente pessimista, ma sa trarre dall'assurdo della vita l'umorismo che nasce dai suoi aspetti più grotteschi. L'irruzione di Carlo XII di Svezia, in marcia per andare a combattere "il Russo", nel bar popolato da varia e sfaccendata umanità (in cui anche la coppia quasi shakespeariana di tragici venditori di scherzi carnevaleschi) è geniale e vale da sola il prezzo del biglietto.
L'alchimia di Andersson è tale da riuscire a rendere vitali e poetici i quadri viventi messi in scena attraverso lunghi piani sequenza, come se i borghesi buñueliani incontrassero Marcel Marceau (cui possono rimandare le facce infarinate di tanti personaggi) dentro un dipinto di Edward Hopper. E si potrebbe aggiungere che dentro a questa composizione si è nel frattempo intrufolato, chissà come, il piccione del titolo, proveniente dall'opera Cacciatori nella neve (1565) di Pieter Bruegel il Vecchio.
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