Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Nulla può scalfire la vitrea patina della tristezza. Nemmeno la lama affilata del ragionamento, soprattutto quando si è ridotta ad uno schematico, ripetitivo, sterile abito mentale. La profondità del pensiero è una mero effetto prospettico, un dispetto della geometria tridimensionale che si mette a giocare con il qui e l’altrove, con il dentro e il fuori, presentando la vicinanza come l’incomprensibile gigantografia di una banalità che si fa nonsense, e la lontananza come un ottuso riflesso dell’inafferrabilità. Laggiù si coglie un aldilà fisso e indifferente, che irrompe sul proscenio solo per contraddire, sconvolgere, umiliare i provvisori protagonisti dell’inquadratura. Lo straniamento li scuote dalle loro insicurezze, indossate come maschere da film horror, per farle diventare meno grottesche e più stupide, meno mostruose e più fragili. L’inutilità, per una volta, si propone come un universo dal doppio fondo, che, sotto la superficie di una noiosa evidenza, rivela un piccolo paesaggio sconosciuto, alternativo rispetto all’azione principale: uno scorcio che può essere uno spazio fisico e concreto (la stanza attigua, l’altra estremità del corridoio, la città vista attraverso la finestra), ma anche un’estensione virtuale dell’immaginazione (una poesia, un sogno, un ricordo).
In quel recesso della realtà sopravvive l’inquietudine già sedimentata dal tempo, che si è arresa alla propria vanità, che non ha più niente di nuovo da dire, e il cui ultimo messaggio è un generale invito alla rassegnazione. L’uomo è crudele. La guerra è perduta. I soldati sono morti. Il paradiso non c’è. Una volta esaurite le speranze, resta, per tutti, solo lo squallido trastullo della consolazione, una pratica adagiata sui canoni romantico- religiosi in cui nessuno riesce a smettere di credere: l’amore, il perdono, l’allegria, l’arte, l’oblio. In You, the Living, il conforto era la musica. Adesso è diventato una valigia piena di scherzi per carnevale. Un finto tesoro che ci si passa senza entusiasmo, il feticcio di un desiderio di condivisione che ha smarrito la strada. Oramai, comunicare significa soltanto accentuare il rimbombo della nostra impotenza, facendo rimbalzare, in mezzo ad un silenzio privo di attesa, gli inespressivi cadaveri delle nostre illusioni. Non esistono più annunci personali, emozioni che ci distinguano, ma solo constatazioni generiche che fanno tabula rasa oppure lasciano il tempo che trovano. Sono tutti defunti, e la tragedia è universale. Oppure stanno tutti bene, e la cosa non importa a nessuno. L’orizzonte rimane comunque vuoto, osservabile solo con il cinico interesse di chi si incuriosisce di fronte allo spettacolo dell’estinzione di una specie. L’evoluzione è una straziante corsa verso la fine (incontro con la morte), che passa attraverso il regresso culturale (homo sapiens): tra la premessa e l’epilogo non accade nulla che non rechi la doppia impronta della fatalità e della irrilevanza, che non sia insieme immutabile e anodino (e così, oggi è di nuovo mercoledì). Si muore in circostanze sciocche, si ama rendendosi ridicoli, si filosofeggia da poveri diavoli, come un piccione seduto su un ramo. Intanto il re ha bisogno del bagno, e purtroppo lo trova occupato. Tutto va storto, naturalmente, e tutti i sacrifici sono vani: quelli della cavia da laboratorio, come quelli dei combattenti per la patria, o quelli degli onesti lavoratori. Sono strumenti di scopi inesistenti. Ogni azione è figlia dell’equivoco, di un’ambiguità che, per caso, imbocca sempre l’opzione peggiore: la bella ragazza non si toglie la scarpa per farsi guardare, non bussa al bancone per ordinare una bibita. La melodia risultante è la languida sinfonia di una delusione spezzettata, dispersa in mille rivoli, di quell’ordinario rimanerci male da cui non ci esime nemmeno la totale assenza di aspettative. Roy Andersson conclude la sua trilogia sull’essere un essere umano ribadendo l’idea dell’inspiegabilità come vizio connaturato nella società moderna: un tarlo che ne determina le perversioni, annullandone il futuro, ed inducendola, sadicamente, ad insistere oltre ogni limite.
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